ZANA: «SONO PRONTO PER FARE IL SALTO NEL WORLDTOUR»

INTERVISTA | 31/01/2023 | 08:15
di Nicolò Vallone

Una felpa azzurra, l’elegante scorcio di un salotto, il pie­no sorriso che tutta l’Italia ciclistica ha ben conosciuto in un pomeriggio pugliese d’inizio estate, la genuina parlata veneta che caratterizza lui e tan­ti suoi colleghi di ieri e di oggi. Il Fi­­lippo campione tricolore in linea ci apre virtualmente le porte di casa Zana nel primo pomeriggio dell’antivigilia. Nel frenetico tetris pre-25 dicembre, tra commissioni natalizie last minute e ultime riunioni dell’anno, le nostre agende s’incontrano in tre quarti d’ora di amabile chiacchiera.


Come tutte le altre formazioni World Tour, pure voi della Jayco AlUla (così si chiama adesso la BikeExchange, ndr) avete svolto un primo ritiro in Spa­gna: come ti sei trovato lì ad Altea con questa realtà per te nuova?
«Benissimo! Abbiamo fatto un bel “fondo”, tante ore di lavoro e non credevo che mi sarei subito trovato così bene: pensa, non vedo quasi l’ora del secondo ritiro dal 12 al 24 gennaio. Questo mi fa molto piacere, sono davvero motivato per la stagione che sta cominciando».


Com’è stato l’impatto nel passare da un ProTeam a un WorldTeam?
«Mi ha colpito l’organizzazione: sapevamo i percorsi d’allenamento un mese prima, una volta arrivati in ritiro tutto è calcolato nei minimi dettagli. Ab­biamo a disposizione due cuochi, il nu­trizionista... Una serie di cose che non si trovano in una Professional, che ha chiaramente meno budget. Inoltre ho apprezzato il modo in cui mi hanno accolto: qui io sono totalmente nuovo, in passato non avevo mai lavorato con nessuno dei miei attuali compagni e staff, ma mi hanno fatto sentire come se fossi con loro da molti anni».

Qui hai trovato tre italiani: Kevin Col­leo­ni, Matteo Sobrero e un altro neoacquisto come Alessandro De Marchi. Fi­no­ra hai legato soprattutto con loro o an­che con altri compagni?
«Sicuramente con loro tre è stato più facile, anche perché il mio inglese è an­cora “di base”. Sento però che già dal primo giorno sto migliorando con la lingua: pure in questo aspetto l’esperienza in Jayco AlUla può farmi solo bene. Comunque piano piano sto conoscendo meglio tutti e stiamo costruendo un bel gruppo: sarà fondamentale per dare il massimo durante la stagione».

E nello staff c’è tanta Italia.
«Eccome! Il personale medico, i cuochi, gli addetti stampa, alcuni meccanici e massaggiatori, oltre naturalmente a Marco Pinotti e Vittorio Algeri. Qui siamo la nazione più rappresentata».

Mentre come corridori, quella italiana è la seconda nazionalità dopo quella “di ca­sa”: gli australiani sono nove, poi ci siete voi quattro e il resto a seguire... quali so­no le differenze più curiose tra voi e loro?
«Vuoi sapere “la roba peggiore”? Loro vanno a mangiare che devono ancora lavarsi, in ciabatte, mangiano pasta col ketchup, carne, insalata, tutto insieme... un disastro (un’allegra risata prenatalizia riempie la nostra chat di Zoom, ndr)».

Torniamo seri: ad Altea hai avuto modo di lavorare con Simon Yates?
«Con lui no in realtà, si trovava a Gran Canaria col gemello Adam: lo conoscerò nel ritiro di gennaio. Intanto pe­rò ho pedalato con gente come Mi­chael Matthews, Dylan Groene­we­gen, Zde­nek Stybar e via discorrendo: per me, che praticamente non sono nessuno, è un onore incredibile poter imparare tanti dettagli al fianco di certi campioni».

Come sei approdato in Jayco AlUla?
«I primo contatti risalgono a quando l’attuale denominazione era di là da ve­nire: era la fine dell’estate 2021 quando, dopo essere andato a podio al Tour de l’Avenir, ricevetti diverse of­ferte tra cui quella della BikeEx­chan­ge. Il loro era il progetto che mi convinceva maggiormente: durante l’autunno appr­o­fon­dimmo i discorsi, chiesi di rimanere ancora un altro anno in Bardiani Csf Faizanè e loro accettarono di aspettarmi per il 2023».

Nella puntata 145 del nostro podcast settimanale BlaBlaBike, De Marchi ha elogiato la schiettezza nelle trattative di Brent Copeland. Confermi?
«Di sicuro è raro trovare un grande team manager internazionale che ti parla in italiano come un tuo connazionale (sor­ride ndr). Sa il fatto suo e quello che deve dirti te lo dice: si parla sempre volentieri con lui. E bisogna rendergli merito per come sta costruendo la squadra.»

Tornando a te, una scelta saggia quella di continuare a “farti le ossa” nel 2022.
«Sì, era chiaro a tutti che un’annata ancora in un ProTeam mi avrebbe permesso di arrivare pronto al grande salto. Per fortuna è andata benone e Copeland ha confermato la volontà di prendermi».

Decisamente! Ma prima di arrivare al campionato italiano, parlaci delle due precedenti vittorie che avevi ottenuto: il Sazka Tour del 2021 e l’Adriatica Ionica Race d’inizio giugno ’22.
«Il Giro della Repubblica Ceca è stato il primo successo da professionista, una sensazione che non dimenticherò mai e che ha rinforzato in me la consapevolezza di dover lavorare, sacrificarmi e soprattutto crederci sempre di più. L’Adriatica Ionica invece mi ha ti­ra­to su il morale dopo un Giro d’Italia che non mi aveva soddisfatto e mi ha trainato verso il sogno di sempre...».

26 giugno, 237 chilometri pugliesi fino ad Alberobello, tu che arrivi fino alla volata ristretta dove batti Rota, Battistella e Piccolo e ti vesti di tricolore.
«Non me l’aspettavo per niente, ero bello tranquillo che dicevo “Domani vado a correre poi torno a casa” e invece ecco questa bellissima vittoria!».

Al debutto in cabina di commento Rai c’era Giovanni Visconti, due volte campione d’Italia e tuo compagno di squadra veterano fino a pochi mesi prima: sappiamo che vi siete commossi insieme quel giorno, a distanza di sei mesi te la riascolti ancora quella telecronaca?
«Giovanni per me è stato un grande, già pri­ma di ritrovarmelo in squadra. In Bar­dia­ni è stato un autentico maestro, ha messo al nostro servizio la sua esperienza. Per quando riguarda la sua bellissima telecronaca, quando magari so­no un po’ giù me la vado a risentire e mi emoziono ancora».

Quanto è difficile poi tornare a correre con la stessa concentrazione?
«Eh, non pensavo ma pesa davvero in­dossare quella maglia: hai tutti gli oc­chi puntati e per certi versi diventa an­cor più dura andar forte. Cerco quotidianamente di lavorare su questo aspetto: vada come vada, l’importante è essere consapevole che sto riuscendo a dare il massimo che mi è possibile dare in ogni momento».

La tua vita com’è cambiata dopo quel trionfo?
«Tutti ti cercano per andar di qua, di là, inviti, premi, sponsor eccetera, in effetti ti toglie qualche energia e devi imparare a gestire la situazione. Bel­lissimo quando le persone dalle mie parti mi riconoscono, mi salutano e vogliono fare una foto con me. Per il resto, io non sono cambiato. Cer­to, mi ha dato responsabilità e voglia di far sempre bene, però ci tengo a mantere la vita di sempre: vivo con la mia famiglia a Piovene Rocchette, il mio paese natale, nel Vicentino. Mi alzo presto, vado a dar da mangiare agli animali ed esco ad allenarmi».

E sappiamo che come animali non hai solo i “classici” cani...
«Sì, mi piace rilassarmi e “staccare” dedicandomi a loro. Quando ho vinto il tricolore alcuni amici mi hanno regalato una vitellina e un maiale, che si sono aggiunti al cavallo, alle galline e ai conigli che già avevo».

Dalla passione per gli animali alla voglia di gareggiare, ormai quasi 24enne, come corridore World Tour: come ti trovi sulle Giant?
«Grandi biciclette! Ora vediamo di farle andar forte».

Qual è il tuo programma?
«Inizio con la Ruta del Sol dal 15 al 19 febbraio, dopodiché due corse da un giorno in Francia e la Strade Bianche. Vedremo poi se fare la Milano-Torino, intanto queste sono le certezze».

Tre anni in Bardiani sono coincisi con al­trettante partecipazioni al Giro d’Italia. Come ti senti ora che ti si aprono potenzialmente le porte pure di Tour de France e Vuelta a España?
«Una sensazione fantastica. Chiaro, in squadra ci sono corridori fortissimi e dovremo parlare bene con la squadra per vedere se e quale grande giro potrò disputare. Per ora sogno e, in caso di qualsiasi chiamata, mi dovrò far trovare pronto».

Stesso discorso lo applichiamo alle classiche monumento. Hai disputato due San­re­mo e due Lombardia, adesso pensi a Fiandre, Liegi e Roubaix?
«Non è il momento, per quest’anno resto eventualmente sulle due italiane».

In estate ti vedremo col coltello tra i denti, stavolta in Trentino, a difendere il titolo di campione d’Italia?
«Quello senz’altro! Nella stessa Jayco AlUla siamo quattro italiani in gamba: io cercherò assolutamente di riportarla a casa, ma se non dovessi riuscirci spe­ro vinca uno dei miei tre compagni di squadra».

L’ultimo in grado di vincere per due volte consecutive il campionato italiano in linea è stato un certo Nibali (2014-2015): cos’hai provato quando ha appeso la bici al chiodo pochi mesi fa?
«Vincenzo è stato un grande, sarà difficile trovarne un altro come lui. È uscito di scena a testa alta, fino all’ultimo è stato competitivo. Speriamo che in fu­turo arrivi qualcun altro alla sua altezza».

Mentre il tuo idolo è sempre stato Marco Pantani.
«Sono nato nel 1999, non ho fatto in tempo a vederlo dal vivo ma ho tutta la sua storia in DVD: da piccolo mi guardavo le sue imprese e ogni tanto lo faccio tuttora su Internet».

E la partenza della seconda tappa del Tour de France 2024, che scatterà dall’Italia, sarà proprio nella Cesenatico del Pirata.
«Molto bello. Così come molto bello è che le strade italiane ospiteranno il Grand Départ. Non solo per gli amanti del ciclismo: il Tour è un evento mondiale che richiamerà tanto pubblico in tutti gli angoli in cui passerà».

Del percorso del Giro 2023 cosa pensi?
«Ci sono queste tre crono, tra cui la cronoscalata parecchio insidiosa il pe­nultimo giorno che potrebbe dare il verdetto finale. Ma la tappa regina sarà il giorno prima, alle Tre Cime di La­va­redo. In generale, una corsa rosa disegnata veramente bene: già alla settima frazione c’è l’arrivo in salita sul Gran Sasso che inizierà a delineare la classifica».

Chi è il tuo migliore amico nel mondo del ciclismo?
«Ne ho tanti, è una magia del ciclismo che altri sport non hanno: ci si affronta in sella alle bici ma poi siamo tutti amici. In squadra tendo a creare rapporti duraturi che resistono ai cambi di maglia».

Da buon passistone, qual è la salita preferita di Filippo Zana?
«Non ne ho una che amo più di altre: mi piacciono tutte quelle in cui posso fare la differenza, non troppo toste quindi (ride ndr)».

Un pensiero per ogni società per cui hai corso?
«Ho iniziato da G1 nella scuola ciclismo del paese, la Piovene Rocchette: sono rimasto affezionato al presidente Antonino Cannata e al direttore sportivo Paolo Serman, ogni tanto vado a trovare loro e i bambini che imparano a pedalare su una bici da corsa. Io ero come loro dieci-quindici anni fa e oltre, oggi mi piace regalar loro qualche borraccia e contribuire a invogliarli a proseguire col ciclismo. Nel club piovenese ho fatto Giovanissimi ed Esor­dien­ti. Siccome però non facevano gli Al­lievi, sono passato alla veronese Ca­ge: lì ho trascorso il biennio sotto la direzione di Riccardo e Daniele Bassi, pa­dre e figlio. Il biennio Juniores invece l’ho affrontato in Contri Autozai, dove ho trovato sulla mia strada tanti personaggi importanti nella mia crescita: il dottor Lucio Cordioli, l’ex professionista Emiliano Donadello, Gianni Te­bal­do, Mauro Bissoli, lo storico accompagnatore Lino Milani che mi diceva sem­pre “Quando arriverai in alto sarò già morto” e invece è sempre lì a seguire i suoi ragazzi. Succes­sivamente ho vissuto due anni da Un­der 23 alla Trevi­gia­ni, divenuta San­gemini nel 2018: qualche volta vado a mangiare insieme al presidente Renato Barzi, mi fa piacere mantenere vivi questi contatti. Fino al salto nei professionisti che ben sapete, in Bardiani Csf Fai­za­nè, nell’anno del Covid: lì peraltro ho ritrovato Mirko Rossato che mi aveva diretto al primo anno in Tre­vigiani. Con la Bardiani e i Reverberi non mi sento neppure di dire che il rapporto sia finito, l’altro giorno erano vicino casa mia a fare le visite mediche e sono andato a trovarli».

La tua famiglia però era più vicina al calcio che al ciclismo.
«Vero, io sono la “pecora nera”: da pic­colino mi appassionai alla bicicletta perché facevo i giretti intorno alla birreria dei miei nonni qua in paese, un giorno un amico di famiglia mi portò a correre... ed eccomi qua col tricolore indosso! Ogni tanto ci penso a dove sarei se non fossi andato in bici».

Prima di salutarti, ti chiediamo di ricordare un tuo meraviglioso conterraneo, un campione silenzioso che ci ha lasciati troppo presto.
«Già, con Rebellin ave­vo in comune persino la squadra giovanile: lui è cresciuto nella Riboli, l’attuale Autozai. Mi porterò dentro per sempre l’immagine e le parole di Davide che, in occasione della sua ultima gara a metà ottobre, mi è venuto a dire “Gio­vane, non ti ho ancora fatto i complimenti per il campionato italiano”. Una gran persona.»

Impossibile non chiudere con un tuo commento sulla questione sicurezza.
«Qua ormai si va fuori in bici e non si sa se si torna. In Italia sembra che gli automobilisti debbano andare velocissimi e arrivare un minuto prima: non hanno dieci se­condi per aspettare? In Spagna, finché non c’è realmente lo spazio per superarti, rimangono dietro: ti danno il “me­tro e mezzo di vita”. In Italia questa cultura non c’è: il nostro lavoro consiste nell’andare sulle strade e purtroppo pare diventare via via più pericoloso. Spero vivamente che sia il governo sia le persone lo capiscano e facciano qualcosa. Per­ché un domani potrebbe capitare a chiunque di noi».

 

da tuttoBICI di gennaio

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