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Se si nomina Dino Buzzati, c’è il rischio che declami – rapito - l’attacco del pezzo sul “Corriere della sera” il giorno dopo la Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia 1949: “Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo...”.
Se si cita Orio Vergani, c’è la certezza che reciti – ispirato - quel brano scritto sempre sul “Corriere della sera” il giorno dopo la Firenze-Modena del Giro d’Italia 1940: “Vedevo qualcosa di nuovo: aquila, rondine, alcione, non saprei come dire, che sotto alla frusta della pioggia e al tamburello della grandine, le mani alte e leggere sul manubrio, le gambe che bilanciavano nelle curve, le ginocchia magre che giravano implacabili...”.
E’ l’ultimo dei “suiveur” letterati: la bicicletta come regina alata, il ciclismo come metafora della vita, il giornalismo sportivo come epica a pedali. Mai andato in bicicletta, si difende con le parole del poeta Alfonso Gatto: “Cadrò, cadrò sempre fino all’ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare”. E alle fatiche in sella confessa di preferire di gran lunga i piaceri in poltrona, ricordando il Ventoux di Mario Fossati: “una montagna calva, affetta da seborrea secca”, “un verde che stinge, impallidisce, si spegne”, “da lontano, un monte di sale”.
Ottantaquattro anni, padovano, Francesco Miloso non ha mai scritto un libro di ciclismo, ma potrebbe correggerli tutti. Quando dubita, allora spulcia e controlla, poi scrive e spedisce. La timidezza non è il suo forte: s’insinua, s’intromette e s’inalbera, si scalda, si schiera e si scaglia. Gli è stato regalato un album in cui lui raccoglie tutte le lettere inviate a direttori e inviati, da Indro Montanelli a Candido Cannavò, da Sergio Neri a Bruno Raschi, allegando le relative e puntuali risposte. Dichiara due grandi amori: il primo, ciclistico, per Charly Gaul, e il secondo, letterario, per Claudio Gregori. Se si ricorda l’apocalisse sul Bondone, è capace di rabbrividire non rimembrando il freddo polare di quel fatidico giorno al Giro d’Italia 1956, ma le emozioni provocategli dall’irresistibile scalatore lussemburghese; e se si sfiora il nome di Ottavio Bottecchia, è pronto a commuoversi alle similitudini omeriche adottate o escogitate dal giornalista trentino.
Fra garage, casa e mansarda, Miloso conta un migliaio di libri a due ruote, dalle biografie alle enciclopedie, dai saggi agli omaggi, compresa una ricca sezione acquistata in Francia. Più varie ed eventuali, come giornali e ritagli, fotografie e opuscoli, in un ordinatissimo disordine bohemienne. Scattante e spietato, irriducibile e inesauribile, stila classifiche e stabilisce graduatorie. Da qualche tempo si è incartato sui dieci più forti corridori di tutti i tempi. Dentro, ovviamente, Charly Gaul. Fuori, tecnicamente, Marco Pantani. Quanto all’ardua scelta del numero uno, Francesco Miloso non s’imbarazza ad accomodarsi fra Bruno Raschi e Gian Paolo Ormezzano: “il più forte Eddy Merckx, il più grande Fausto Coppi”.
In questo suo lungo tramonto cartaceo, Miloso si è garantito la complicità di alcuni preziosi gregari, come la pasticceria Sablon di Padova, che gli offre la lettura di tre quotidiani al giorno, a cominciare dalla “Gazzetta dello Sport”, o come quei giornalisti a cui, guadagnato il loro numero di telefono, si rivolge come in un “Processo alla tappa” o un Circolo Pickwick, pretendendo immediata attenzione e subitanea risposta. Per esempio: più geniale Curzio Malaparte o Anna Maria Ortese?, più romantico il Gavia o lo Stelvio?, più erculeo Baldini o Gualazzini?, più travolgente Roland Barthes o Pierre Chany?