Arnaud Demare conosce il ciclismo da quando è nato. Il suo legame con le due ruote è frutto di una passione di famiglia, con mamma Nadine e papà Josuè che ancora oggi partecipano a gare amatoriali e che spesso raggiungono le corse del figlio, partendo dalla Piccardia e attraversando l’Europa in bicicletta.
Arnaud Demare conosce il ciclismo ed è legato al Giro d’Italia da un filo doppio: in questa edizione numero 105, il francese, con i suoi tre successi, è stato il corridore più vittorioso della corsa rosa. Grazie alle vittorie di tappa conquistate a Messina, Scalea e Cuneo e al secondo posto sul lago di Balaton in Ungheria, il francese ha fatto sua anche la maglia ciclamino della classifica a punti per la seconda volta in carriera, dopo quella dell’ottobre 2020, nel Giro spostato per il Covid.
Ma proprio quel Giro ha segnato l’inizio di un lungo un periodo di buio nella sua carriera: dopo le quattro vittorie di quella edizione, l’ultima delle quali il 14 ottobre a Rimini, Demare non ha più vinto in una corsa di WorldTour per ben 19 mesi, fino a quell’11 maggio quando è tornato ad alzare le braccia al cielo a Messina.
Quella in terra siciliana per Arnaud è stata anche la prima vittoria di stagione: la luce per lui si è riaccesa sullo Stretto quando a Messina ha battuto il colombiano Fernando Gaviria e l’italiano Giacomo Nizzolo. Subito dopo è arrivato il bis a Scalea e infine il tris a Cuneo, al termine di una tappa pazza, volata dal gruppo ad una media folle.
Sono otto adesso i successi del transalpino alla corsa rosa: uno nel 2019, quattro nel 2020 e tre in questa edizione. A Messina, anche se con un treno in versione ridotta, la sua Groupama FDJ ha lavorato duramente per fiaccare gli avversari, riuscendo a staccare lungo la strada Mark Cavendish e Caleb Ewan.
«Quella volata poteva sembrare disordinata vista dall’esterno - ha spiegato Demare in Sicilia - ma per chi la vive dall’interno come noi, tutto ha funzionato come ci aspettavamo. La squadra ancora una volta è stata fondamentale per questa vittoria, perché è solo grazie a loro, che nel momento giusto mi sono trovato nelle condizioni di poter scattare e andare a vincere».
Quando arriva la prima vittoria in un grande giro, la voglia di migliorarsi si accende immediatamente e il francese, sbarcato in Calabria, ha subito chiarito di voler inseguire altri successi, per raggiungere lo stesso risultato del 2020. Così non è stato, il francese si è fermato a 3 successi, ma Demare si è tenuto ben stretta la maglia ciclamino E ha subito messo in chiaro le cose a Scalea, superando Caleb Ewan solo al fotofinish, questione di un paio di centimetri.
Dopo il successo in Calabria Demare continuava a frenare, dicendo che la maglia ciclamino non era la sua priorità, ma che il suo obiettivo erano le vittorie di tappa. Però intanto quella maglia era sulle sue spalle e da lì nessuno l’ha più tolta.
«Per vincere davvero la maglia ciclamino bisogna tagliare il traguardo a Verona e quando vedo la sfortuna che ha avuto Girmay mi dico che tante cose possono ancora succedere. Per vincere devi rimanere una persona umile».
Lo stranissimo infortunio occorso al giovane fenomeno eritreo Biniam Girmay, costretto ad abbandonare la corsa a causa del tappo di una bottiglia di prosecco che lo ha colpito nell’occhio, ha indotto anche il francese alla prudenza... Accumulando qualche punticino ai traguardi volanti quotidiani e controllando i suoi avversari, il velocista francese ha continuato la sua corsa in maglia ciclamino e a Cuneo ha ribadito la sua supremazia vincendo nettamente davanti a Bauhaus e ancora Cavendish.
Alla fine Demare ha combattuto con le sue ansie e le sue paure e a Verona, dopo 21 giorni di corsa, è salito sul podio nel meraviglioso scenario dell’Arena per portarsi a casa definitivamente quel simbolo che vuol dire tanto per gli uomini veloci.
«Lo sprint si gioca in pochi istanti - racconta - ma dietro ogni volata c’è una grande preparazione che spesso la gente non riesce a comprendere appieno, ed è normale che sia così».
Da fuori il pubblico vede che di norma a 10 chilometri dal traguardo le squadre dei velocisti iniziano a lavorare, sgomitando e accelerando per organizzare il proprio treno, chiamato a lanciare il capitano verso la vittoria. Una tappa che finisce in volata, si gioca in pochi secondi, dove tutto accade velocemente. C’è la posizione da conquistare e mantenere, poi c’è lo studio dell’avversario e, se non hai un treno, la necessità di scegliere in un attimo la ruota giusta da seguire. E spesso il velocista pedala sul filo della psicologia, incerto riguardo le sue potenzialità e la sua forza.
«Mi capita di dubitare e quando dubito penso troppo e questo non va bene. Perché mi trovo nella condizone di aspettare lo sprint perfetto, guardo i miei compagni di squadra e invece di far parlare il mio istinto e il mio talento, penso. Ho paura di non riuscire a vincere e puntualmente non ci riesco. Ma quando siamo arrivati alla volata di Messina, mi sono detto “se vinci una gara in più o una in meno, cosa cambierà? Divertiti, lanciati, lasciati andare”. L’ho fatto e ho vinto una, due, tre volte. E mi sono portato a casa questa maglia che in fondo... mi dona».
da tuttoBICI di giugno
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