Vigliacco e carogna il tempo, che come un ladro ti ruba la vita dentro casa, alle spalle, mentre tu sei fuori, immerso in mille occupazioni, e nemmeno immagini cosa stia succedendo. Poi improvvisamente arriva il momento in cui bisogna fare i conti con la realtà, ma in quel preciso momento non c'è più niente da fare, tutto finito e indietro non si torna.
Vigliacco il tempo che ci ha già trasformato quel timido ragazzino messinese agli esordi nella Fassa Bortolo, anno 2005, in un veterano segnato da tante medaglie, qualche ferita, pochi rimpianti.
Diciotto anni di carriera non sono un niente, sportivamente diventano una carriera eterna, ma per chi ha vissuto sulle orme di Nibali tutto questo tempo resta comunque lungo come un semplice respiro.
All'inizio ci è servito come il dopo-Basso, per aprire un altro ciclo e un'altra stagione. Poi ci è servito per tenere in piedi praticamene da solo l'Italia dei Grandi Giri. Ultimamente e infine l'abbiamo usato come palliativo per sopportare meglio lo sfacelo nazionale, unico nome presentabile in giro per il mondo, almeno fino all'altroieri. Sapevamo da un po' che Nibali non era più Nibali, ma Nibali comunque c'era e mascherava. Una magnifica foglia di fico sopra le nostre vergogne.
Adesso è bastato l'annuncio, scelto con legittima teatralità proprio là dov'è nato e dove tutto è cominciato, perchè già tutto sfumi nel seppiato e partano i morsi della malinconia. Comincia a mancare, anche se ancora c'è.
Abbiamo davanti tutto il tempo per piazzare Nibali al posto giusto tra i più grandi del nostro ciclismo – dopo Coppi e Bartali, con Gimondi, sopra Pantani? -, aprendo il furibondo dibattito che ciascuno manipola a proprio piacimento, in base a gusti personali e categorie estetiche, come algoritmi del tifo che conducono immancabilmente a conclusioni opposte, tipo Pantani più grande anche se ha vinto meno (ancora stiamo a fare il braccio di ferro per Moser e Saronni, Bugno e Chiappucci, eccetera eccetera).
Nibali, se non altro, non è finito nel tritacarne del dualismo per mancanza di opposto. Ha ballato da solo, solo per noi. Ha ballato benissimo.
In attesa che gli ultimi mesi di cronaca lascino definitivamente il campo alla storia, l'Italia si accorge comunque che salutando Nibali abbiamo un prima e un dopo, un con e un senza. Prima e con eravamo qualcosa e qualcuno in campo mondiale, dopo e senza abbiamo le pezze al sedere, chissà fino a quando. Ma non solo. Dovendo andare oltre i risultati, cercando qualche significato più profondo, noi tutti – anche chi non l'ha mai amato davvero, anche chi non gli ha mai concesso quarti di vera nobiltà – noi tutti dovremmo riconoscergli un grande merito: il merito di avere anticipato, comunque avviato, la nuova stagione del ciclismo, quella che stiamo vivendo e assaporando negli ultimi tempi, con tutti questi bei campioni che corrono da febbraio a ottobre, nelle gare in linea e nei grandi giri, senza fare calcoli e senza diventare maniacali con la specializzazione, più che altro senza concedersi col braccino ai tifosi, un mese all'anno, prima e dopo le lunghe sparizioni da chi l'ha visto.
Vincenzo avrà anche peccato di generosità, buttando e buttandosi via spesso e volentieri, ma com'è vero iddio ci ha dato dentro sempre, tutto l'anno, nelle piccole e nelle grandi gare. Come i suoi eredi di oggi, che sembrano avere compreso la lezione, scegliendo di divertirsi a esercitare l'arte senza calcoli e senza diserzioni.
Oltre ai trofei, oltre a tutto il resto - chi lo dimentica sulle Tre Cime di Lavaredo, in rosa, nella tormenta di neve, anno 2013 -, di Nibali resterà questo stile, generoso e un po' folle.
Dev'essere per questo che adesso, mentre ci saluta idealmente, il nostro ciclismo appare già più strano e più triste, come un villaggio senza campanile, come una domenica senza sole.