L’argomento è spinoso e delicato al tempo stesso, perché si parla di soldi, in un mondo come quello dello sport dove vige il volontariato, spesso camuffato. Noi del ciclismo siamo sempre bravi a darci addosso, ad attribuirci tutti i mali di questo mondo, così come attribuire a Cordiano Dagnoni anche l’idea di volersi dare uno stipendio. State pur comodi, non agitatevi, non sto difendendo il presidente federale, Silvio Martinello mi chiamerà nuovamente in causa, ma lo dico subito: il problema dello stipendio ai presidenti federali è un argomento che è da tempo sul tavolo delle Federazioni e del Coni. E qualcuno, come Gabriele Gravina, presidente della Federcalcio, questo problema l’ha già superato dall’aprile dello scorso anno.
I presidenti di tutte le 44 Federazioni (e dico tutte) stanno facendo da tempo pressioni su Giovanni Malagò, il numero uno del nostro sport che è sensibile all'argomento (anche se lui da sempre dà in beneficenza l’emolumento che percepisce dal Coni) e per questa ragione sta studiando da tempo la cosa. Le strade da percorrere o che potrebbero essere percorse sono molte, come quella di non superare quanto attualmente percepisce un Segretario Generale, quindi un massimo di 150.000 euro all’anno, per arrivare a distribuire ai presidenti Federali una cifra che potrebbe essere parametrata in base al giro di affari della loro Federazione: dall’1,5 al 2 per cento del fatturato, dalle grandi alle più piccole.
Ad oggi, tutti i presidenti di Federazione percepiscono una retribuzione di 36 mila euro lordi all’anno, elargita dalla società Sport e Salute, controllata dal Mef (Ministero dell’Economia e delle Finanze). Per Statuto è l’unica retribuzione che spetta ai presidenti, a meno che non ricoprano altri incarichi retribuiti all’interno della federazione stessa. Ed ecco il punto.
Fino a ieri, cioè fino ad un anno fa, il ruolo del presidente della Federcalcio era, infatti, in pratica una carica onorifica con un rimborso spese di 36 mila euro. Fino a ieri, dico. Fino a quando Gabriele Gravina, presidente della Federazione Giuoco Calcio, si è dato uno stipendio di 240 mila euro. Repubblica qualche tempo fa ha spiegato dettagliatamente che l’idea è anche quella di indennizzare i consiglieri federali. A seguire il presidente del settore tecnico e del settore giovanile, sempre della Federcalcio. E in prospettiva i vertici della Giustizia sportiva. In pratica, professionalizzare i ruoli e renderli veri e propri lavori remunerati. Per non rendere gli incarichi federali un impegno con appannaggio esclusivo di chi possa permetterselo.
Detto che questa, quindi, non è una sortita di Cordiano Dagnoni, ma di tutti i presidenti di federazione che stanno lavorando da alcuni anni al progetto, arriviamo alla domanda: ma questa è la strada giusta da percorrere? Non ho una risposta netta, lo ammetto. Trovo che 36 mila euro lordi per assumersi tutta una serie di responsabilità e gestire soldi della comunità siano davvero pochi. Le competenze, a casa mia, si pagano. Detto questo, però, c’è anche l’aspetto negativo della cosa. Se da domani chi si candida insegue non solo il sogno onorifico e di prestigio del ruolo, ma sul piatto trova anche una cifra consistente, potrebbero anche cambiare radicalmente le regole del gioco. È chiaro che poi potrebbe entrare in scena la politica, a condizionare le nomine con tutta una serie di variabili che potrebbero andare a mutare molti equilibri.
Passione o competenza? Questo è il dilemma. La perfezione sarebbe avere entrambe le cose, ma spesso non è così e si punta soprattutto sulla passione e la disponibilità. Il tempo, che in ogni caso è un valore e come tale ha un prezzo. Oggi le Federazioni sono effettivamente vere e proprie aziende, e come tali vanno gestite e guidate con visione e lungimiranza. Il problema non è di poco conto e non è nemmeno di facile soluzione. Non ho una ricetta in mano, so solo una cosa, però: se si vogliono manager giovani e capaci, con le attuali regole del gioco non si gioca. L’idea di dare uno stipendio ai presidenti federali? Non è di oggi e nemmeno da attribuire a Cordiano Dagnoni.
DALL’EPO ALL’EPOS. Il difficile non è vincere, ma correre. Riuscire a farlo. Non è essere meglio dei propri avversari, ma essere al meglio: nel senso di stare bene. Stare bene anche quando senti di non avere niente, perché fin quando il tampone non ti dice che tutto è ok, il Mortirolo è dentro di te. L’ostacolo da superare è invisibile e nemmeno un triplo vaccino ha messo i nostri corridori in una situazione di “comfort zone”.
È un ciclismo ad handicap, fatto di salite, discese, scalate e tamponi. Se stai bene ma il tampone dice che sei positivo, vai a casa! Ieri l’Epo, oggi l’epos: dell’attesa del responso del test antigenico o molecolare. «Ricevere un test con risultato positivo è uno shock - ha detto qualche giorno fa Wout Van Aert al quotidiano belga Het Nieuwsblad - perché si rischia di vanificare un’intera preparazione con mesi di lavoro».
Siamo al “liberi tutti”, ma il nostro sport resta incatenato. Se non cambieranno le regole d’ingaggio, per i Grandi Giri saranno dolori. Stai bene, non hai nessun problema e nemmeno una linea di febbre? Per regolamento a metà Giro o metà Tour e Vuelta dovrai fare in ogni caso un tampone rapido e, in caso di problemi, potrai ricorrere al PCR, ma se la positività sarà confermata vai a casa, anche se sei in maglia. Anche se sei asintomatico.
«Dovremo iniziare a guardare al Covid nello stesso modo in cui vediamo le altre malattie - ha aggunto sempre Van Aert -. Non siamo stati testati per l'influenza o il raffreddore in passato. Certo, se ti ammali, devi rimanere a casa, ma è sotto gli occhi di tutti come il virus giri facilmente in queste prime gare. È sicuramente qualcosa che ci ritroveremo nelle classiche di Primavera e che potrebbe creare non pochi problemi ai corridori e alle squadre».
Come dargli torto, come non comprendere che per atleti tri-vaccinati e asintomatici forse qualcosa andrebbe cambiato? Non solo per lo spettacolo, ma per la regolarità delle corse.
Editoriale da tuttoBICI di Marzo