L’altra parte di Maria Lato si chiamava Pino Faraca, era un corridore, poi un artista, era suo marito, poi il padre dei loro due figli, era la spontaneità e la generosità, poi la sofferenza e l’assenza. Nove mesi fra l’agosto 2015, la diagnosi – glioblastoma: tumore al cervello –, e il maggio 2016, la morte.
“L’altra parte di me” è diventato un libro (Luigi Pellegrini editore, 168 pagine, 15 euro). Un libro che Maria Lato ha composto per ricordare, per raccontare, per spiegare, anche per alleviare, anche per accompagnare, anche per allungare una vita spenta a neppure 57 anni, quando ci sarebbe stata ancora tanta strada, nella bici e nell’arte, nella famiglia, anche in quella del ciclismo.
Nel ciclismo Pino fu una meteora. Primo di sette fratelli (cinque maschi e due femmine), calabrese (di Cosenza, dunque con un destino ciclistico da emigrante, infatti in Lombardia con la Passerini), nel 1981 al primo anno da professionista salì in paradiso (sesto al Giro dell’Etna, decimo nella Coppa Sabatini, undicesimo nella generale e primo tra i giovani al Giro d’Italia) e precipitò all’inferno (caduta al Giro dell’Appennino e coma per una settimana), ci riprovò ma non ci riuscì, lasciò e ricominciò, biciclette non più da far decollare e volare ma da vendere e riparare, e quadri perché quella ispirazione, quella passione, quel talento l’aveva sempre avuto. Quando andai a trovarlo, prima della partenza del Giro del 2005 da Reggio Calabria, Pino mi confidò che da ragazzo, non sapendo scegliere fra Eddy Merckx e Pablo Picasso, lui teneva a tutti e due, “tanto non si sarebbero mai incontrati”.
In “L’altra parte di me” Maria spalanca il suo cuore: è una dichiarazione d’amore, un atto d’amore, una storia d’amore cominciata con uno sguardo e diventata una tavolozza di colori, un mosaico di parole e gesti, di intimità e complicità, di intese e sottintesi, che in quei momenti in cui tutto filava si erano volatilizzati ed evaporati ma che adesso ritrovano peso e valore, riacquistano significato e poesia, scatenano rimpianti e nostalgie, liberano lacrime e dolore. Con coraggio Maria ripercorre il calvario, da quel mal di testa iniziale sottovalutato all’ultima stretta di mano affievolitasi. “La domenica mattina mi svegliava dicendo ‘dormigliona mia, è ora di alzarsi, il the è pronto e la bici ti aspetta”, “Il fine settimana, quando la stagione lo permetteva, eravamo soliti uscire in bici”, “Anche quando non avevo la possibilità di uscire in bici insieme a lui, il mio the era lì pronto sul tavolo”. La bici era fedele, preziosa, paziente. “Trascorse la mattina del 27 agosto 2009 in bici, tirando fino al tardo pomeriggio”. Quel giorno Pino compiva 50 anni. “La sera, tra varie scuse, gli detti false direttive circa il locale da raggiungere per una pizza tra noi. Una volta giunti a destinazione, tra lo stupore e l’incredulità, trovò parenti e amici ad attenderci”.
Pino era speciale. Lo ricorda Francesco Moser nella prefazione: “Giro d’Italia 1981. Eravamo a Bibione al secondo giorno, si correva una semitappa a cronometro a squadre di 15 km. Lui la vinse con i ragazzi della Hoonved di Zandegù e io la persi per due miseri secondi. Però grazie al gioco degli abbuoni e al verdetto del prologo della giornata precedente, indossai la maglia rosa. Tutti e due sul palco della premiazione”. Fra le testimonianze, quelle di Dino Zandegù, Ernesto Colnago, Renato Giusti, Mario Beccia e Benedetto Patellaro. Ma quanti altri potrebbero ritrarre Faraca. A me, prima del Giro del 2005, Pino confidò, specchiandosi: “Nelle mie tele ricompaiono strade, facce, muscoli, e poi velocità, colori, montagne, e poi ancora la stessa voglia di scalare e scollinare. Vincerò le mie Tre Cime di Lavaredo quando qualcuno, guardando un mio quadro, senza paura di sbagliare dirà: ‘È un Faraca’”. L’altra parte di lui.
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.