Da professionista Aldo Balasso non fu mai né primo né secondo: “Ma una volta terzo. In Umbria, al Giro delle Tre Province, primo Van Vlierberghe, secondo Taccone. La verità è che non avrei dovuto fare il dilettante per così tanti anni. Ma la Federazione aveva imposto il blocco olimpico per i Giochi di Città del Messico 1968. Mi aveva perfino spedito al Giro del Messico perché mi abituassi a correre in altitudine. Invece 20 giorni prima della gara mi ammalai. E addio Olimpiadi. Se prima del blocco olimpico ero in parola con Giorgio Albani per passare alla Molteni, e al mio posto ci passò Mario Anni, dopo il blocco olimpico da dilettanti a professionisti passarono 60 corridori e io trovai un posto alla Sagit, una squadra che puntava sui giovani e che correva alla garibaldina. Era il 1969. Non vedevo l’ora di partecipare al Giro d’Italia, ma fu la mia rovina. Non per quel giorno, da solo a tre chilometri dal traguardo di Mirandola quando il tubolare scoppiò. Ma dopo l’undicesima tappa, in Abruzzo, a Scanno. Stavo bene, pedalavo senza fatica, ero secondo nella classifica dei giovani. La sera, in albergo, chiesi un minestrone. Speravo che mi aiutasse: ero un po’ stitico. Invece mi avvelenò. La notte, il mal di pancia, la febbre a 39 e mezzo, così fiacco da non riuscire neppure a camminare, in gabinetto ci arrivai a ginocchioni. La mattina, invece di chiamare un medico, fui rispedito a casa, da solo, la febbre a 40. Il direttore sportivo non aveva mai visto una corsa né un corridore: era un rappresentante della Sagit, una ditta di abbigliamento specializzata in impermeabili. Non è ciclismo, pensai, questa è una giungla”.
Il colpo di grazia – una disgrazia – fu un incidente: “Il venerdì concludevamo l’allenamento dietro i camion sulla Mantova-Brescia. Caddi. Nell’impatto a terra mi si spostò l’ultima vertebra, che finì con lo schiacciare il nervo sciatico. Non solo mi causava dolori, ma impediva la circolazione, e soprattutto sotto sforzo non avevo più forza nelle gambe. Qualcosa del genere era successa anche a Gianni Motta, ma lui era Motta e io Balasso. Andai a farmi vedere di qui e di là, da medici e da stregoni, girando mezza Italia. L’unica soluzione era tenere un busto rigido per due anni, sospendendo l’attività. Impossibile. Così continuai a correre. Ma non andai mai più a posto. In squadra non avevo neppure il coraggio di dirlo. E per non fare brutta figura, mi allenavo da solo o con un paio di amici. Partecipai al Giro d’Italia del 1970, rimediando un nono posto in volata nella prima tappa. Stavolta lo finii, sessantanovesimo. Ma alla fine della stagione mollai”.
Però: “Però che fortuna, il ciclismo. La fortuna di aver visto Fausto Coppi: era la Vicenza-Bolzano del Giro del 1950, e proprio quel giorno Coppi sarebbe caduto ai piedi delle Scale di Primolano fratturandosi il bacino. La fortuna di aver conosciuto Gino Bartali: abbiamo anche dormito nella stessa camera, siamo diventati quasi amici. La fortuna di aver pedalato con Jacques Anquetil: in una Genova-Nizza forò, tre o quattro gregari si fermarono per aiutarlo, il gruppo andò a tutta, dopo mezz’ora Anquetil rientrò da solo in gruppo, io stavo sempre nella seconda parte del gruppo, e lui ci superò con un’eleganza, uno stile, una disinvoltura che non ho mai più visto, sembrava che i pedali li sfiorasse soltanto. La fortuna di aver pedalato anche con Eddy Merckx: in un Giro dell’Emilia, tra Modena e Bologna, strade strette, vento forte, si scatenò la battaglia, lui si arrabbiò perché i corridori sbandavano e rischiavano di finirgli addosso, allora scattò e fece 20 chilometri, davanti, da solo, con il gruppo, dietro, che andava in mille pezzi. La fortuna che nel gruppo ci fosse uno come Dino Zandegù: in salita chiamava il gruppetto, e io m’infilavo perché era l’unica maniera per arrivare al traguardo entro il tempo massimo, poi era un cinema, perché ogni occasione era buona perché Zandegù s’inventasse qualcosa, ricordo un Giro d’Italia, a Saint-Vincent, quando ci disse che per alcuni la vita è come una roulette, per altri come una roulotte, e noi fessi in bici”.
Però: “Però avevo cominciato a correre che ero un ragazzo timido e pauroso, ma appassionato e battagliero, e ho finito di correre che ero sempre appassionato ma anche deluso, perché senza quel problema alla schiena è vero che non sarei mai stato un campione, però è anche vero che avrei potuto fare di più. Però se prima ero un corridore misto, cioè per percorsi misti, e quando si faceva la corsa dura, venivo fuori nel finale, poi, sempre per quel problema alla schiena, le salite diventavano calvari, le Tre Cime di Lavaredo me le sogno ancora di notte. Però avevo anche un altro difetto, quello che non riuscivo a concentrarmi, e se prima della corsa si decideva una strategia, in corsa dimenticavo tutto e andavo all’attacco, e se prima della corsa mi imponevo di non pensare a nulla perché i pensieri frenano, in corsa pensavo ai lavori che si facevano in campagna, che qualcuno stava facendo al posto mio, e che avrei potuto fare io, e mentre pensavo a tutto questo, mi sfilavo irresistibilmente verso il fondo del gruppo”.
(fine della seconda puntata – fine)
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.