Ogni tanto si pensa che lo sport, tutto lo sport di tutto il mondo, sia molto avanti nell’esplorazione di se stesso e delle sue genti, cioè dell’uomo (inteso anche come donna, si capisce) che lo pratica, e che dunque ogni primato debba essere considerato come il frutto di un lavoro lungo, intenso e assai specialistico, con l’ausilio magari di un po’ di fortuna, e comunque con miglioramenti sempre minimi, soffertissimi.
Ogni tanto si pensa il contrario, cioè che lo sport non abbia sfruttato sinora che una parte delle possibilità dell’uomo, come provato, raramente ma regolarmente, da improvvisi miglioramenti di primati, con produzione di performances impensabili sino a pochi minuti prima del suo conseguimento: un esempio i 400 metri ad ostacoli ai Giochi ultimi di Tokyo.
Ogni tanto un qualche sport decide di cambiare se stesso, le sue regole, il suo show che pure sembrava dover essere immutabile. Di solito questo avviene per intervento della tecnologia che ispira nuove specialità con nuovi strumenti, dalla scarpetta al motore, ogni tanto è, ma guai a dirlo esplicitamente, una sopravvenuta variante di natura chimica, che può essere chiamata doping ma anche scienza dell’alimentazione o semplicemente medicina sportiva.
Ogni tanto si usa a fondo il relativamente nuovo strumento che si chiama televisione, però coniugata secondo le infinite nuove interpretazioni con infinite aperture tecnologiche, per imporre addirittura uno sport nuovo o rinnovato o riscoperto e riproposto. E così ecco il padel accanto al tennis, ecco che i Giochi olimpici ospitano specialità assortite, dall’arrampicata estrema alla break dance: si vede di tutto e pazienza se non si capisce più tutto.
In sostanza lo sport ribolle di novità intanto che però i 100 metri nell’atletica o nel nuoto restano i 100 metri di sempre, nel senso di eccellenza e nobiltà (casomai, bisogna prepararsi all’avvento di nuovi generi, trans eccetera). In sostanza lo sport è un gran casino (il termine ex osceno ormai è sdoganatisissimo e torna utile) di cose nuove appoggiate su cose vecchie, oppure nate proprio per essere delle stesse cose vecchie il più o meno esatto contrario.
E in mezzo a tutto questo ribollire di nuovo assoluto o a questo ricuocere sport vecchi con ingredienti nuovi, come sta, cosa fa, cosa rimane o cosa diventa il ciclismo? Quel ciclismo che, nato per esplorare spazi grandi, adesso si avvita in spazi anche piccoli, sommariamente definibili come piste però scovate nella natura e non obbligatoriamente create all’interno di cattedralacce costruite dall’uomo.
Cosa ne è del ciclismo caro? Lo chiediamo e soprattutto ce lo chiediamo, per conto della gente che ha il diritto di fruizione - dello sport nuovo e di quello vecchio - e non anche il dovere di ispezione, di controllo, di partecipazione troppo complessa agli show propostile o impostile. Ce lo chiediamo credendo in un giornalismo che pone anche domande di questo tipo, soprattutto dopo avere quasi smesso di raccontare. E annotiamo che il ciclismo fruisce di nuovissime tecnologie ma intanto riscopre e si regala le strade bianche, continua a scalare le montagne ma lo fa anche - come dire? - a balzelloni, con quella cosa che si chiama mountain bike e sorellame. Che è uno sport assai avanti nel culto della valutazione uomo-donna, nel senso che le ciclistesse sono più vicine ai ciclisti di quanto lo siano, per esempio, le nuotatrici ai nuotatori, anche se il nuoto si addice eccome alle donne. E al proposito viene da ricordare che c’è uno sport in cui la donna sta più avanti, come performances, dell’uomo, ed è la ginnastica artistica: nessun uomo avvicina quella ragazzina Usa di colore, pure ottima pensatrice, che fa cose sublimi annullando il suo stesso peso, e senza sbrodolamenti eleganti ma talora bambineschi come invece avviene (esempio comunque interessante) nel pattinaggio esso pure detto artistico.
Il sogno di chi scrive queste righe è una sorta di stati generali del mondo tutto della bicicletta, per studiare strade, nuove e vecchie, e per studiarsi. Per prendere atto della propria universalità, ormai, superiore forse a quella di qualsiasi altro sport, e della sua immane vis ecologica, e intanto, ahinoi, della staticità mentale dei suoi dirigenti e padroni, magari teneri e poetici ma intanto lenti e timorati. E per sollecitare casomai una letteratura ciclistica nuova, persino più suggestiva di quella che pure fece le sue fortune agli albori: casomai riesumando una certa poetica antiqua, mentre il resto dello sport cerca di comunicare con formule aride, grafica algida, fonetica in neolingua inglese cioè nuova koiné. E pazienza se, sottomessi a questo sport nuovo, ci scopriamo dentro, ma proprio tanto dentro, la voglia povera di controllare se in salita davvero i pedalatori sgocciolano se stessi di sudore segnando la strada alla maniera di un Pollicino liquido.
Il ciclismo può diventare o ritornare il primo degli sport. Fra l’altro ha già scoperto e assimilato il suo mondo petrolarabo, però su strade vuote e non in cantieri mortiferi di impianti sportivi: vuoi mettere?
da tuttoBICI di gennaio
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