Franco Canciani ha un’età – saranno 85 il prossimo 8 luglio – in cui si guarda più indietro che avanti, in cui si fanno più conti con il passato che progetti per il futuro, in cui non si aspetta ma si fa. Subito, possibilmente. Fosse anche una semplice telefonata. Questa.
Giuliano di San Canzian (è l’Isonzo a dividere la Giulia, il territorio di Gorizia, dal Friuli, quello di Udine), Franco apparteneva a una famiglia appassionata di biciclette: “Uno zio partecipò al Giro di Sicilia del 1928. E il papà, imbragatore nei cantieri navali di Monfalcone, mi caricava sul motorino - era un Sachs, 49 cc - per andare a vedere mio fratello che correva. Ero con mio padre quando il Giro d’Italia nel 1946 passò dalle nostre parti. La Rovigo-Trieste. Il gruppo si fermò non a Pieris, ma precisamente a Begliano, anche se però è meglio non specificarlo altrimenti quelli di Pieris si arrabbiano. Begliano è una frazione, come Pieris, del comune di San Canzian. La strada era piena di bitume e reticolati. I titini lanciarono sassi e spararono con pistole e fucili. Ma noi non avevamo paura. Eravamo abituati alla guerra, quella mondiale e quella di tutti i giorni tra fascisti e comunisti”.
Nonostante tanta passione familiare per la bicicletta, Franco cominciò a correre contro il parere dei genitori: “Mio padre diceva che era una perdita di tempo. E portava l’esempio di mio fratello. Era forte, aveva qualità, vinceva. Ma a vent’anni smise di correre. Che senso ha, si chiedeva mio padre, allenarsi e correre per anni e anni e poi smettere sul più bello? La prima corsa la feci a Monfalcone: avevo 18 anni e correvo per i Cantieri Riuniti Alto Adriatico. La seconda, a Mortegliano, la vinsi. Avevo una bici Julia che non andava avanti, però è stata preziosa perché a forza di aggiustarla sono diventato bravo come un meccanico. La verità è che ho perso tante di quelle gare per colpa della bici. Però è anche vero che ho vinto gare che poteva vincere qualcun altro. E alla fine il conto si pareggia”.
Guardandosi indietro, Canciani si considera “un uomo fortunato”. A cominciare dalla fortuna di avere avuto i maestri giusti: “Il primo era Lionello Dreossi, un maniscalco friulano. Mi insegnava che cosa mangiare e bere, quando e quanto dormire, i giri da fare, le corse da correre. Era all’avanguardia. L’allenamento più duro consisteva nel giro della Valcalda, in Carnia, 260 km, gli ultimi 80 dietro i camion che andavano a Trieste. Dreossi sosteneva che era indispensabile fare la vita: dormire alle nove, donne niente, e ricaricare le batterie. Il vero ciclista, aggiungeva Dreossi, si costruisce d’inverno, non d’estate. ‘Un giorno sarai professionista’, profetizzò. E ci azzeccò. Il secondo maestro fu Guido De Santi, triestino, che da corridore aveva tenuto testa a Fausto Coppi. Per gli allenamenti De Santi mi dava appuntamento a Monfalcone, poi diceva che non poteva muoversi da casa, o dal negozio di alimentari della moglie, e mi costringeva ad allungare fino a Trieste. Grande passione e lunghi allenamenti: la sua ricetta. Un giorno, per una corsa su strade bianche, mi consigliò di mettere il 13 e di montare tubolari pesanti da pista. Poi mi domandò se avessi male ai reni. Gli risposi di no. E allora gonfio un po’ di più le gomme, mi disse. Così, mi spiegò, quando salti da una parte all’altra della strada, schizzi i sassi addosso agli altri corridori”.
Ma sì, si ripete Canciani, “sono stato un uomo fortunato”. E continua: “Da capofamiglia, non avrei dovuto fare il militare. Dopo il Car a Taranto, siccome facevo parte del Pronto soccorso internazionale motoscafi, avrei dovuto avere un’altra destinazione. ‘Ti mando nel posto più bello del mondo, con le donne più belle del mondo’, mi promise un maresciallo. Era il Lido di Venezia. Ma io voglio correre, sospirai. Così mi destinò in Sardegna. Raccogliendo tutte le forze, compresa quella della disperazione, bussai al comandante. Entrai e trovai, seduto, un generale. Diventai rosso di vergogna, feci il saluto militare, ma rimasi zitto. Lui mi ordinò di parlare. Cercavo il comandante, sillabai. E chi è più comandante di me?, disse il generale. Gli spiegai la situazione. Mi mandò a Rimini, dove c’era anche una pista. Corsi per il Pedale Riminese. E, credetemi, per accoglienza e ospitalità i romagnoli non li batte nessuno. Poi corsi con la Padovani, per Severino Rigoni, e lì vinsi la Coppa Italia a squadre a cronometro e poi il Fenaroli a Milano a 48 di media con Zanchetta e Testa. E fui azzurro in Francia, ma niente Olimpiadi di Roma”.
Negli annali del ciclismo Canciani figura soltanto per un anno - il 1961 - come professionista: “Nella Ghigi. Gregario a 70 mila lire al mese, ma sarebbero state 250 mila se avessi fatto le Olimpiadi, così da capofamiglia avrei avuto la soddisfazione di veder mia madre mangiare una bistecca. Andavo forte. Alla Milano-Sanremo ero in fuga con il mio compagno di squadra e di camera Aldo Moser quando, sui capi, a una quarantina di chilometri dall’arrivo, la moto con un fotografo davanti a noi finì contro una roccia e noi finimmo contro la moto. Risultato: ritirato. Alla Mentone-Roma in sei tappe ci arrivai con un po’ di febbre, il direttore sportivo Luciano Pezzi si arrabbiò, il mio compagno e amico Angiolino Piscaglia mi consigliò di partire carico di cibo, pronto per entrare nella prima fuga. Obbedii e sul Col di Nava passai primo. Poi vinsi la classifica finale dei traguardi volanti. Al Giro di Campania ero davanti, prima sul Chiunzi, poi sull’Agerola, terzo dietro a Bahamontes e Massignan, ma Pezzi mi fermò perché da dietro arrivava Livio Trapè. E quando Trapè allungò, io rincorrevo tutti quelli che cercavano di inseguirlo, e alla fine feci nono. Al Giro della Provincia di Reggio Calabria Pezzi mi promosse mezzo capitano ma senza gregari, voleva dire libero di fare la mia corsa. Fuga di 11, dentro in tre della Ghigi, me compreso, ma ai piedi del Sant’Elia, a 35 km dall’arrivo, Pezzi ci disse di fermarci. E alla vigilia del Giro del Veneto, Pezzi mi comunicò che il mio contratto, nonostante le promessa del biennale, non sarebbe stato rinnovato. E comunque fui tredicesimo su 200 corridori. Ma a Pezzi non portai rancore, anzi, lo avevo perdonato quando lo incontrai 37 anni dopo, era il Giro d’Italia del 1998, la tappa di Piancavallo, primo Marco Pantani”.
Franco Canciani pedala nel passato con la leggerezza di uno scalatore: “Mia madre diceva che fin da piccolo avevo gli occhi e la voce da uomo”, “Un vero corridore può essere sensibile, ma non dovrebbe mai piangere”, “Alle persone si dà del lei finché, spontaneamente, istintivamente, naturalmente, non viene di dare del tu”, “Il mondo va avanti con le cose buone, no?”, “Nella vita ho fatto mostre di quadri e sculture in legno, ma nel mio cuore al primo posto c’è sempre il ciclismo”.
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.