“Quel giorno la tappa era stata vinta da Miguel Poblet, “un vecchio scugnizzo di Barcellona, piccolo come un fantino, quasi calvo, sempre allegro, come sanno essere soltanto certi poveri e certi matti. Poblet era arrivato primo in volata, tutto curvo sopra il manubrio, rischiando se non la morte almeno qualche mese di gesso e d’ospedale. Dopo il traguardo, Miguel era scoppiato a piangere sul largo petto di Giovanni Borghi”.
La storia non è quella di Poblet, ma di Borghi. La raccontava Vittorio Notarnicola, un fuoriclasse del giornalismo che prima o poi sarà finalmente riscoperto e rivalutato, in un libro del 1966 intitolato “Giovanni Borghi”, edito da Longanesi, nella collana “Gente famosa” diretta dal critico cinematografico Giovanni Grazzini, 144 pagine, 400 lire (e una copia, firmata dallo stesso Notarnicola “con amicizia” per Angelo Rovelli, è stata donata da Giuseppe Castelnovi alla Biblioteca della bicicletta Lucos Cozza, approdo finale di un lungo e salvifico viaggio geografico-letterario).
Borghi, mister Ignis, il signore dei frigoriferi, era uno venuto dal niente: aveva imparato a suonare il pianoforte per accompagnare i film muti, poi da operaio divenne inventore e industriale. E sponsor. Boxe, basket, ciclismo.
“Calmato Poblet, evitato il pericolo di commuoversi a suo volta, Giovanni Borghi si erse sulla folla e gridò: ‘Ragazzi, abbiamo vinto. Tutti a cena con noi stasera e chi non viene è un pistola’. La cena fu affollatissima e accaddero cose impensabili”. Nino Oppio, un principe del giornalismo, che era in ritardo, “si presentò nella sala del banchetto in automobile e nessuno se ne stupì. Giovanni Borghi prese per il collo l’oste e gli tagliò la cravatta all’altezza del nodo”. Seguirono altri scherzi, un po’ per tutti. L’oste mise fuori il cartello “locale al completo”, ma non poté mandare indietro un cliente più che fedele, un medico che si sistemò da solo in un angolo.
“Borghi vide subito l’estraneo. Disse: ‘Lei, scusi, perché non viene a mangiare un boccone con noi?’. ‘Grazie, molto gentile, ma ho poco tempo. Debbo andar via’. ‘Andare dove?’. ‘Dai miei malati’. ‘Perché, lei è medico? Non c’è nessun altro che può badare ai suoi malati?’. ‘Eh no: sa, io sono malauguratamente il direttore e il padrone della clinica’. ‘Se la costa la sua clinica? Su, dica pure, compro io e lei viene a mangiare con noi’”.
Perché Borghi era fatto così, convinto che bastasse aprire il portafogli, estrarre un mazzo di banconote o firmare un solo assegno, e comprare il mondo: cliniche, aerei, aziende, squadre, cattedrali. Qualsiasi cosa.
“L’affare, naturalmente, non si fece: il medico finì la frutta, pagò e uscì mentre la cena continuava tempestosa”. Il locale avrebbe dovuto chiudere, per licenza, alle ventidue e trenta, e invece si andò avanti oltre mezzanotte. All’una l’oste cercò di dirlo a Borghi, che reagì così: “Se la costa ‘sta baracca? Compro io e si tiene aperto fino a quando dico io...”. Alle due l’oste ci riprovò. Borghi gli domandò: “Chi è che ti toglie la licenza?”. “Il tenente dei vigili...”. La reazione fu la solita: “S’el costa poeu un tenente dei vigili... ne faccio dieci miei e li metto qui... e vedrai che non ti tolgono la licenza”.
(fine prima puntata - continua)
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