Hai tutte le carte in regola, ma per essere sicuri di vincere – le dissero – c’è solo un sistema. Basta che ti decidi. Allora che ne pensi?
Non dovette rifletterci su più di un attimo. D’altra parte, conoscendone pensiero, filosofia, morale, rigore, la risposta era già prevista.
Tant’è vero che ancora una volta disse no al doping. Un sistema che a quei tempi, anni Novanta, imperava nel ciclismo, e non solo nel ciclismo, e non solo nello sport. Disse no con tutte le conseguenze possibili e immaginabili del caso. L’esclusione, l’emarginazione, l’emigrazione dalla strada alla mountain bike, dagli squadroni alle squadrette, dalle grandi manifestazioni internazionali a quelle regionali. Ma disse no. E di quel no non si è mai pentita. Riuscendo così tutte le notti ad addormentarsi con la coscienza in pace.
Paola Turcutto si racconta a Elisa Cozzarini in “Il ciclismo nel sangue” (Ediciclo, 192 pagine, 16 euro), una storia che gli americani tradurrebbero in un film hollywoodiano dalle stalle alle stelle e dalle stelle alle stalle (già, ma quali sono le stalle e quali le stelle?), un viaggio di andata e ritorno a pedali fra sogni e sacrifici, soddisfazioni e rinunce, e fra corse e rincorse, crisi e trionfi, e fra la bottega del meccanico di fiducia a Cividale del Friuli e il centro di preparazione olimpica all’Acqua Acetosa a Roma, fra il medico di base che non sapeva e che si informò e che poi le comunicò che – secondo lui – si trattava di una “cura contro l’etica sportiva” e certi medici federali che proponevano “il pacchetto completo” garantendo, escludendo, spingendo, pressando.
Turcutto fa nomi e cognomi. Non tutti. Chi sa, riconosce. Chi non sa, se ne fa un’idea. Erano gli anni di piombo del ciclismo, quando il doping era invisibile e quando l’antidoping si limitava a fissare limiti al doping. Fino a qui si può, da qui in poi non si può più. Altrimenti non il licenziamento, la penale e una squalifica di due o quattro anni, ma uno stop di due settimane. Per poi controllare che i valori del sangue fossero scesi entro i limiti di sicurezza. E ricominciare. Come se nulla fosse. Un piccolo incidente di percorso. Senza macchie sulla fedina, sul curriculum, sulla coscienza. Oggi – e lo si può affermare con convinzione – la situazione si è in gran parte rasserenata, alleggerita, sanificata, purificata. Senza mai poter abbassare la guardia.
Ma “Il ciclismo nel sangue” non è solo la lotta alle contraffazioni agonistiche e spirituali. E’ la storia di una donna e di un’atleta, di un’Alfonsina Strada che “molto prima di imparare a camminare, mi muovevo instancabile sulle ruote. Giravo e rigiravo con il mio triciclo rosso in ferro attorno al tavolo, sempre in senso orario, come ipnotizzata”. E’ la storia di una passione, “la bicicletta è sempre stata la mia inseparabile compagna. Era il mezzo di trasporto per raggiungere gli amici o la scuola, o per giocare nei prati. Da ragazza mi è servita a lungo anche per andare al lavoro”. E’ la storia anche di una famiglia, la nonna che le ricordava “male non fare, paura non avere”, il nonno che quando si arrabbiava “stringeva i denti. Lo faccio anch’io, quando qualcosa non mi piace: stringo i denti”. E’ la storia di un’educazione a due ruote, “superavo la mia insicurezza aggrappandomi alle parole dei miei allenatori, non riuscivo a fidarmi di me stessa”.
Forte, resistente, coraggiosa, ostinata, Paola Turcutto ha fatto strada, non solo su strada ma anche nella mountain bike e nel ciclocross. Titoli italiani, podi europei e mondiali, un’Olimpiade disputata (a Barcellona nel 1992) e un’altra sfiorata (ad Atlanta nel 1996, e sfiorata perché disse no al doping). Qui nel libro si schiude e si apre, si fida e si confida, si confessa e si professa. Anche dell’incertezza vissuta quando è scesa dalla bici, “dopo dieci anni intensi di ciclismo, non vedevo più l’atleta ma una donna sconosciuta, in equilibrio precario”. Anche della scelta di vivere nei boschi, “adesso chi vuole raggiungermi deve fare una bella salita, non è da tutti”. Anche della storia d’amore con Christophe, “devo avere una qualche sintonia con il Belgio. Loro poi sono tutti matti per la bicicletta”. Anche dello stile di vita, “il nostro è un mondo pieno di cose inutili”. E soprattutto della sua pulizia morale: “Il doping ha a che fare con i soldi. Il guadagno a costo della salute. Il successo a costo di barare e di perdere la faccia. Più in alto sali, più alta è la posta in gioco”.
“Il ciclismo nel sangue” è un libro da leggere a scuola. Poi Paola Turcutto – a occhio – potrebbe entrare in classe e rispondere alle domande. A tutte le domande.
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