E’ un nome di speciale rilievo, nel ciclismo del suo tempo – e pure oltre – e vedremo il perché, quello del vicentino Lucillo Lievore, nato nella piacevole cittadina di Breganze il 14 luglio 1940, nella zona collinare della pedemontana vicentina, lungo i contrafforti dell’Altopiano dei Sette Comuni, conosciuto pure come altopiano d’Asiago, che digradano verso la pianura, caratterizzata da un ottima produzione vinicola con il pregiato “Torcolato” in prima fila.
Il cognome è tipicamente vicentino e, in proposito è da ricordare il suo quasi coetaneo Carlo Lievore, nato a una decina di chilometri di distanza, a Carrè nel 1937, eccellenza assoluta dell’atletica italiana, detentore del record mondiale del lancio del giavellotto dal giugno 1961 al luglio 1964 e con pure il fratello maggiore, Giovanni, giavellottista.
Lievore è appunto il cognome di Lucillo che, per l’inusuale nome proprio d’origine latina che significa splendente, luminoso, non sa come e perché i genitori l’abbiano scelto. Lui lo porta però, sempre con orgoglio, da oltre ottanta anni.
E la sua notorietà ciclistica è legata soprattutto all’intervista televisiva in diretta, famosa, notissima, sempre attuale nella sua espressività e didascalica umanità del ciclismo, del gregario in particolare, realizzata dal grande Sergio Zavoli. Il famoso giornalista lo affiancò in motocicletta nel corso di una lunga fuga solitaria inscenata da Lucillo Lievore nella penultima tappa del Giro d’Italia 1966, la Belluno-Vittorio Veneto, dove raggiunse in vantaggio di ben 38 minuti sul gruppo e sollecitò il giovane veneto, al suo esordio nel Giro d’Italia, ad aprire il cuore e pure l’anima.
Lucillo Lievore, inquadrato nella Mainetti, squadra creata proprio in quell’anno dagli omonimi e appassionati di ciclismo imprenditori vicentini, settore materiali plastici, con sede a Castelgomberto era composta in gran parte da corridori veneti, tutti votati al servizio del capitano, il fortissimo velocista Marino Basso, classe 1945, vicentino di Rettergole di Caldogno con l’apporto d’esperienza di un altro vicentino, dello stesso paese di Basso, il compianto Marino Fontana (1936-2013).
Torniamo a Lucillo Lievore, in fuga che, come si dice in gergo, è “al gancio” per la fatica accumulata nel suo tentativo solitario, lungo le sue strade del suo Veneto, ma non si sottrae alle domande, a tutto campo, che gli rivolge Sergio Zavoli. Risponde pure con proprietà di linguaggio all’intervistatore e inventore del sempre inarrivabile “Processo alla tappa”, in bianco-nero, trasmissione-cult che per la sua straordinaria valenza originaria non merita i pallidi e inconsistenti tentativi d’imitazione poi sempre proposti con persistente pervicacia, perfino deleteria, con risultati deludenti nonostante i mezzi tecnologici moderni e vari sforzi “d’apparentamento” all’originale, con tentativi d’imitazione quasi quanto la “Settimana Enigmistica”, sempre falliti senza remissione però.
Sergio Zavoli sapeva trarre lo spunto, in varie occasioni, dalla collaborazione amichevole, tutta romagnola, di due personaggi conterranei che operavano, in moto, all’interno del gruppo. Uno era il faentino Guerrino Farolfi, “Scainell” per gli amici, moto-informatore che collaborava con i vari radio/telecronisti della Rai per il ciclismo, ricordato anche come la “gazzella della Raticosa” per la vittoria ottenuta da dilettante nell’allora importante gara, padre di Mino Farolfi, giornalista con lunga frequentazione ciclistica. L’altro era il ravennate Jader Armuzzi, del Pedale Ravennate che, al Giro d’Italia e altre corse rosa, svolgeva la funzione di “lavagna” e, soprattutto al Giro, era il responsabile dei traguardi a premio occasionali che, in quel periodo, erano una voce importante di guadagno soprattutto per i comprimari. E Jader Armuzzi, nel ruolo, riscuoteva la fiducia di tutti e sapeva appianare, con il suo caratteristico modo di fare, eventuali differenze d’opinioni sull’aggiudicazione dei premi in palio fra i corridori. Altra sua dote era di sapere sempre tradurre in moneta sonante, immediata, eventuali premi in natura, difficili da gestire durante la corsa, contrattando velocemente il controvalore “cash”e convincendo gli offerenti, in pochi attimi, con la sua dialettica romagnola, sulla bontà dell’operazione. Erano due personaggi, Guerrino Farolfi e Jader Armuzzi, molto ben introdotti e considerati all’interno del gruppo e Sergio Zavoli lo sapeva e si avvaleva anche delle loro “entrature” in materia per arricchire il suo “Processo”.
In quell’occasione Lucillo Lievore smentì anche lo stantio stereotipo del “sono contento di essere arrivato uno” ma, a sua volta, sentendo le gambe sempre più dure, espone la sua paura di essere raggiunto dagli inseguitori ottenendo le rassicurazioni di Zavoli che il gruppo era lontano, a più di mezz’ora. Invece, alle sue spalle, inseguiva, in forte rimonta, il cremasco Pietro Scandelli (1941-2020) con il quale aveva iniziato la fuga lungo la salita del Bosco del Cansiglio. Lo raggiunse e lo superò prima dell’ascesa del San Boldo e vinse la tappa con 15’18” su un esausto e oramai demotivato Lievore. Il gruppo, regolato da Bariviera, giunse a 16’30”. Scandelli era compagno di squadra, nella Molteni, di Gianni Motta, vincitore finale di quel Giro a Trieste. Come sovente succede in casi simili, Lievore e Scandelli si rimproverarono a vicenda di non avere tirato in eguale e giusta misura.
La carriera pedalata di Lucillo Lievore inizia dopo la scuola dell’obbligo quando, in contemporanea, comincia a lavorare nell’edilizia, quale apprendista muratore e inizia a correre nella società di casa, il Velo Club CSI Breganze, dove rimane fino all’ultimo anno d’allievo e con le credenziali che lo definiscono “corridore completo”, terminologia variamente interpretabile, passa quindi nel Veloce Club Vicenza Campagnolo e infine, per l’ultimo anno fra i dilettanti, nell’U.S. S. Vito di Viguzzano di Schio.
Passa nella categoria professionisti con la Mainetti, la squadra di casa, nel 1966 e 1967 e ancora oggi, sovente si ritrovano qui gli ex di Mainetti e di altre squadre nell’omonimo velodromo locale, senza gareggiare però, ma per qualche sostanzioso buffet con brindisi. Nel 1968 approda all’Eliolona, azienda tessile del milanese, con il capace manager marchigiano Alceo Moretti nel ruolo che ora si definirebbe “team manager”e il pistoiese Silvano Ciampi quale direttore sportivo. L’anno successivo, sempre con i medesimi dirigenti, gareggia con la maglia Kelvinator, industria di frigoriferi di matrice statunitense. Nel 1970 riveste la maglia della vogherese Zonca Lampadari, diretta da Ettore Milano e con il preciso Carlo Nilo uomo dei conti e dei pagamenti, ricorda Lievore.
L’ultimo biennio fra i professionisti – 1971 e 1972 - lo vede indossare la maglia bianconera della GBC di patron Jacopo Castelfranco con Enzo Moser in ammiraglia.
Poi attacca la bicicletta al famoso chiodo e non mette più né il numero al telaio, né quello dorsale. Non consegue alcun successo fra i professionisti ma è orgoglioso della maglia nera vinta con uno stratagemma, suggeritogli dall’amico Marino Fontana, al Giro d’Italia, anno 1967, quando in occasione del 50^ edizione della corsa rosa fu ripristinata, la famosa maglia nera che voleva “premiare” (virgolette d’obbligo…) l’ultimo della classifica pure con consistente premio in denaro. E anche nel 1971 chiuse la classifica finale proprio in fondo alla graduatoria, senza però ottenere il riconoscimento della maglia nera e tangibile, collegato, premio.
In carriera ha vinto corse classiche del ciclismo giovanile quali l’Astico-Brenta e il Giro del Belvedere, sempre in Veneto. Non ha rimpianti in materia però Lucillo Lievore che, lasciato il professionismo, iniziò a lavorare con i fratelli Luigi, classe 1937 e Giorgio 1942, nell’impresa famigliare di prodotti chimici specifici per alberghi, ristoranti e comunità varie. Quale addentellato ciclistico anche in questo settore ricorda che i prodotti che realizzavano erano distribuiti commercialmente dalla bergamasca Domus, nome storico del ciclismo per l’attività organizzativa, la Settimana Bergamasca soprattutto, e la forte squadra agonistica.
E’ sposato con la signora Mercedes Merlo, sua concittadina e ha tre figli: in ordine cronologico sono Eddy (ogni riferimento a Merckx è, naturalmente, puramente voluto), Marta ed Enrico.
Ha ora ottantantun anni, ben portati, vive nella sua Breganze e il sabato e la domenica compie passeggiate in bici, distese, su distanze contenute, con amici, nel piacevole territorio precollinare vicentino e senza l’assillo e il timore che da dietro lo riprendano. E se succede, pazienza, soggiunge sorridendo.
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