Un bambino gli si avvicina, lo squadra, poi gli domanda: “Ma sei l’originale?”. Lui, Andrea Pasqualon, il Falco di Enego, maglia Wanty, bici da corsa, occhiali da gara, scoppia a ridere. Sì, si può cominciare con il botta-e-risposta fra lui e i “cuccioli” al Bike Summer Camp organizzato da Samuel Marangoni all’Hotel Panorama (un bike hotel) di Panchià, in Val di Fiemme. Domande da cronisti, da reporter, da intervistatori. Curiosità sfrenata.
La prima bici da corsa? “Una Wilier”. La prima bici vera? “Una bmx, rossa e gialla, era così alta che per partire dovevo salire su un muretto”. La passione? “Guardando le corse alla tv. Indurain, Pantani... E guardando il Giro d’Italia del 1998 passare davanti a casa: era l’Asiago-Selva di Val Gardena, Pantani indossava la maglia verde, ma dopo il secondo posto dietro a Guerini conquistò la maglia rosa”. Più duro il Giro o il Tour? “Il Giro, ne ho fatto uno, per le salite, e il Tour, ne ho fatti tre, per le medie, lo stress, la velocità, il caldo”. L’allenamento? “Dipende. Ma in generale fra le 27 e le 32 ore settimanali, passando dalle cinque-sei-sette ore dei lunghi alla due ore, anche una e mezza, dei giorni di scarico”. Il riposo? “Fondamentale. A cominciare dalle otto-nove ore di sonno”. E l’alimentazione? “Poco e spesso. Cinque pasti al giorno, un po’ di tutto, cercando di evitare dolci e salse”. In corsa? “Ci preparano tortine di riso con marmellata, miele, cioccolato...”.
La prima vittoria? “A 20 anni, terzo anno da dilettante, in una notturna. E mi sbloccai”. La vittoria più bella? “Forse la Coppa Sabatini. L’avevo sfiorata, arrivando già due volte secondo, finché finalmente la conquistai, davanti a Sonny Colbrelli, l’attuale campione d’Italia”. La velocità più alta? “In volata, 74 all’ora al Tour de France due anni fa”. E in assoluto? “Centosedici, sulla Marmolada, giù verso Malga Ciapela”. E la velocità più bassa? “Sullo Zoncolan. Meno di 10 all’ora”. Quanti chilometri l’anno? “Circa 38-39 mila, quasi il giro della Terra”. La corsa più dura? “La Liegi-Bastogne-Liegi. Lunga, spesso con il maltempo, e neanche un metro in pianura”. La corsa considerata persa e poi invece vinta? “Da dilettante, a Col San Martino, a 20 chilometri dall’arrivo forai la ruota posteriore prima dell’ultima salita, cambiai la ruota con quella di un compagno di squadra, rientrai e vinsi in volata”.
Quanto costa una bici? “La mia, ma non è mia, è della squadra, costa 8500-9mila euro”. Quanto pesa? “Sette chili e 400, ma ha i freni a disco. Il minimo è 6,800. E c’è chi, per arrivare a quel minimo, la fa piombare”. Quante bici? “Due, una da strada, l’altra da crono, a casa. E quattro, tre da strada e una da crono, nel magazzino della squadra”. Niente mountain bike? “Sì, d’inverno”.
La caduta più terribile? “In Belgio, in una discesa, andavo a 60 all’ora, entrai nel canaletto di scolo dell’acqua ai bordi della strada, mi scivolarono mano e braccio dal manubrio, sbattei contro il marciapiede in cemento, mi maciullai la coscia”. La caduta evitata? “Tante, tutte miracolose”.
Gli avversari? “Tutti”. Anche Peter Sagan? “Abbiamo le stesse caratteristiche, ma lui è più forte di me. Per questo riuscire a batterlo sarebbe bellissimo”. E il pubblico? “Senza, è brutto. E’ come giocare in uno stadio vuoto. Invece la gente ai bordi della strada, che urla, esorta, incoraggia, ti fa andare più forte. Ma bisogna stare attenti. Fra cartelli e cellulari, gli spettatori si sporgono e c’è il rischio di scontrarsi”. La fuga? “Difficile da prendere, a volte difficilissimo, quasi impossibile. C’è chi al chilometro zero sfrutta la scia della macchina della giuria quando accelera e ci prova subito”.
Mai sbagliato percorso? “In Olanda, strade strette e incasinate, destra e sinistra, dentro e fuori, e il vento. Gruppo scremato, io nell’ultimo gruppetto, nell’ultimo giro – era un circuito – la moto-staffetta sbagliò strada e così ai meno 10 ci ritrovammo in testa alla corsa. Raggiunti dai battistrada, rinunciammo a disputare la volata. Ma forse non tutti rinunciarono”.
Mai arrivato ultimo? “In un Tour de France. Caduto nella tappa di Roubaix, sul pavé, mi ero fatto male alla schiena. Passai il giorno di riposo a letto. Poi c’era da scalare l’Alpe d’Huez dopo aver superato altri due colli. Pronti, via, dopo una ventina di chilometri mi staccai per i dolori, ma continuai chiedendomi se ce l’avrei fatta ad arrivare al traguardo. Con la giusta ostinazione e qualche borraccia lunga, ci riuscii. Con me, ma all’arrivo davanti, c’era proprio Colbrelli, vittima non di una caduta, ma di una giornata nera”.
Come andavi a scuola? “Ero pazzerello. Organizzavo scherzi, giochi, tranelli. Poi diventai abbastanza bravo, ricevetti anche buoni voti, anche perché i miei genitori, se fossi andato male, non mi avrebbero concesso di fare sport”. Quali sport? “Sci. Discesa. Ho sempre amato la velocità”. Anche adesso? “La squadra mi autorizza a sciare, d’inverno, lontano dalle corse, solo quattro o cinque volte”. Altre cose lontano dalle corse? “La caccia. Alla lepre, con il fucile e i miei segugi”.
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