Ma, insomma, Bartali salvò gli ebrei o no? Preceduto da interviste e anteprime che avevano allarmato e scandalizzato il mondo del ciclismo (e anche della storia, non solo di quella del ciclismo), il libro di Marco e Stefano Pivato - “L’ossessione della memoria” (Castelvecchi, 104 pagine, 13,50 euro) – cerca di spiegare, come recita il sottotitolo, “Bartali e il salvataggio degli ebrei: una storia inventata”.
Pivato padre (Stefano, storico e saggista) e figlio (Marco, giornalista scientifico e scrittore) sostengono che la storia è in crisi: è uno degli effetti dell’era di internet, enorme quantità di informazioni, scarissimo grado di verifica, maggiore peso della memoria personale ed emotiva, minore peso nella ricerca delle fonti e nella profondità della critica. A prescindere dal caso Bartali. Ma anche e soprattutto nel caso Bartali. “Sono amici, parenti e tifosi di ciclismo che attribuiscono al campione un ruolo destinato ad aumentare il fascino già straordinario non solo per via della rivalità con Fausto Coppi. Una parte non secondaria è svolta dai politici sempre pronti a cavalcare l’onda della popolarità e a trasformare gli eventi in consenso elettorale. E questo nonostante non un solo documento e neppure una testimonianza credibile certifichi il suo ruolo di ‘postino della pace’”.
A facilitare la santificazione di Bartali, i Pivato indicano “l’immaginario della verosimiglianza”: “Uomo di profonda fede cattolica, terziario carmelitano, atleta leale e rispettoso nei confronti degli avversari, marito e padre esemplare e non privo di un coraggio che talvolta lo oppone al fascismo: queste qualità rendono del tutto credibile la vicenda del salvataggio degli ebrei che, come nella miracolistica, non ha bisogno di prove ma postula certezze”. Finché “il culto di Bartali esiste a prescindere da ogni prova documentale”. Anche se, precisano gli autori, “il campione toscano non ha alcuna responsabilità nella costruzione del falso mito. Infatti la sua consacrazione nella parte di salvatore degli ebrei avviene cinque anni dopo la sua morte”.
La vicenda è conosciuta: fra il 1943 e il 1944, a Firenze, l’arcivescovo Elia Dalla Costa e il rabbino Nathan Cassuto istituiscono una rete per salvare numerosi ebrei dalla deportazione. Bartali, amico di Dalla Costa, avrebbe nascosto documenti falsi nei tubi della bicicletta e li avrebbe recapitati in Umbria, in Versilia, in Liguria. E “il giornalismo sportivo ha elevato Bartali al ruolo di eroe senza curarsi troppo di prove documentarie”. I Pivato smontano articoli e confutano testimonianze, cercano e non trovano alcun sostegno scritto, infine lamentano come “l’attribuzione al campione da parte dello Yad Vashem del titolo di Giusto fra le nazioni, nel 2013, viene a costituire una sorta di sigillo che tacita dubbi e diffidenze sul caso”, anche se “il rifiuto da parte dello Yad Vashem di mostrare agli studiosi interessati il fascicolo intestato a Bartali solleva più di un interrogativo sul fatto che anche associazioni ed enti di ricerca possano avallare memorie e testimonianze punto o poco credibili”.
Marco e Stefano Pivato contestano tutti, da Alexander Ramati autore di “Assisi underground” a Sergio Zavoli prefatore di “Cento volte Bartali 1914-2014”, da Paolo Alberati e la sua tesi di laurea poi diventata il libro “Mille diavoli in corpo” ai canadesi Aili e Andres McConnon e il loro romanzo “La strada del coraggio”, da Ivo Faltoni il meccanico ad Andrea Bartali il figlio che avevano raccolto confidenze e racconti, dal politico Riccardo Nencini nei suoi scritti e discorsi all’insegnante Angelina Magnotta nel suo saggio “Gino Bartali e la Shoah”, compresa “La Gazzetta dello Sport” perfino nella pubblicazione “Lo sport secondo Papa Francesco” del 2 gennaio 2021. Al massimo, per i Pivato, si tratta di voci e memorie di seconda o terza mano, mai verificate, mai documentate. Insomma, la storia non può passare attraverso “il bene si fa ma non si dice”, uno dei comandamenti spirituali dello stesso Ginettaccio.
Personalmente, e modestamente, non ho i titoli né le capacità per ribaltare la tesi di Marco e Stefano Pivato. E, non devo neanche confessarlo, faccio parte di quel giornalismo sportivo che, attraverso interviste e recensioni, indagini (ne ricordo una, in particolare, in un convento di Assisi) e viaggi (anche a Gerusalemme), ha cercato di fare luce su quegli anni e su quelle azioni. Ma anche in assenza di documenti scritti (un registro dell’arcivescovo e del rabbino, i faldoni di amministratori comunali, i quaderni delle associazioni partigiane, o forse i diari di suore e gregari?), credo in Bartali postino di pace e in tutti quelli che – fra gli altri, anche Claudio Gregori, giornalista e scrittore, amico e collega alla “Gazzetta dello Sport” – hanno raccolto poche ma significative parole dello stesso Gino. Credo. Credo: voce – non di seconda o terza mano – del verbo credere. Un atto di fiducia e di fede. Poco storico, molto spirituale.