Cicclo. Che sta per bici, bicicletta, biciclèina, bùrtel, spìcciola, addirittura velocipede o cavallo d’acciaio. Ma cicclo dà subito l’idea: “Cich-clich-clach, come fosse lo scatto di un congegno preciso, infallibile, del rocchetto dentato che, facendo girare la catena, ingrana maglia dopo maglia e tira, col pignone, la ruota motrice, di tè che ti inarchi sulle pedivelle e metti in moto il complesso e geniale meccanismo, prima titubante, poi sempre più deciso, della pedalata possente e delle ruote che volano e mordono”.
Cicclo a sella in giù e a ruote in su sulla copertina di un vecchio libro di Francesco Guccini: s’intitola “Vacca d’un cane” (Feltrinelli, 1993), ed è il racconto della sua infanzia e della sua adolescenza, sulla strada e nei sogni, a scuola e in sacrestia, fra Garibaldi e l’America. Anche Guccini andava in cicclo: “Le strade sono piene, di cicclo, e alla domenica la via Emìglia si riempie di dakòta, appaiati anche in file per sei, che la tengon tutta e vacca nesuno li sposta, e sembran la donzelletta che vien dalla campagna, tutti tacati di tappo nuovo il dì di festa, e i dì feriali s’cìcclano allegri su e giù i garzoni con l’ampia cassetta colma di pani o frutte e verdure miste ed altre variopinte derrate pogiata davanti al manùbbrio, e passano compassati in tabarro e cappello i vecchi contado che vedi solo occhi a faro e cappello in alto e ruote sotto, tutto il resto è tabarro avvolgente”.
In un dialetto sgrammaticato e inventato, Guccini pedala nella memoria: “Le cicclo (chi ce l’ha ma non tutti ce l’hanno) si tengono in casa, nell’ingresso pronte all’uso, perché se fai tanto di lasciarle giù un momento le cùccano, che adesso vacca d’un cane rostìscon tutto uso ridere. Mia madre ha un’agile e leggera Legnano da donna, che diverrà poi tua per uscucapione, e mio padre una cosa colossale e antico, quasi monumento equestre, ancora coi cerchioni di legno che c’è un po’ da vergognarsi a andare in giro con quella adesso, tempo di Legnano appunto, e di Atala Torpado, e di Bianchi, di Benotto e Dei, di Bottecchia, Màino, Lygie, Olmo, Cinelli, Villa, Wolsit, e ha un sedile largo come piazza Darmi, dice mia madre, e un fanale che quando funzionava (probabilmente prima che ci scancherassi dentro io per agiustarlo) non ci sarebbe più bisogno dei lampioni in strada”.
Nel mondo rotondo di Guccini, le cicclo si dividevano in due grandi categorie: il tipo A, “quasi da corsa, col manùbbrio tutto diritto, i freni, esempio di indicibile modernità, a filo, di colori quasi argentei o d’oro, il cambio Campagnolo che non si sa bene a cosa serva ma è tògo avercelo, e dei tubolari col bordo interno bianco legeri legeri che va be’ è più facile forare ma vacca s’è tògo”; e il tipo B, “che è una qualunque cicclo delle marche suddette ma per esempio il pedale ha perso i pistolini di gomma e si riduce nel solo lucido acciaro del ferro portante, nel campanello manca la campana superiore così come in almeno una delle manopole il rivestimento di bachelite s’è involato, la dinamo non va o s’è fulminata la lampadina del fanale e così via bell’andare”. Ci sarebbe anche il tipo C: “La cicclo del professor Di Brella, misteriosamente tenuta lustra e nuovénta come l’armoar del salotto buono di casa tua il dì di Pasqua”.
Il bello della cicclo è che “si può fare praticamente tutto”, dai trasporti ai traslochi, dal giro della casa all’attraversamento della via Emilia, dalla gita al viaggio, “prender su in cicclo e andare ad esplorare che so Nonàntola” o “raggiungere Panaro per snadrazzare”, anche se “il massimo della cicclo in primavera era quando trovavi una mina”, una ragazza, “che magari l’invitavi a fare un giro e curiosamente non ti mandava a fare delle pògne e ti rispondeva di sì. Per motivi che sfuggivano queste mine non erano MAI quelle per cui andavi delirando in quel momento, ma non ci stavi poi micca a menartela su più di quel tanto, andavi e basta”. Finché “qualcuno cominciò con la 600 del padre, poi qualcuno con la sua, anche la 1100, e ci furono anche i primi incidenti”. E non fu più la stessa vita.
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