Ferri. A Ferri e a fuoco. Andrea Ferrigato, professionista dal 1991 al 2005, una ventina di vittorie, otto Giri e una tappa (nel 1994), ha una straordinaria arte: quella del racconto.
“Era il Giro d’Italia del 2000, la partenza da Roma con arrivo a Milano. Le gambe stavano da dio, mi aspettavano alcuni arrivi in leggera salita adatti a me, ero in Fassa Bortolo, squadra votata alle fughe e diretta da Ferretti. Tutto sembrava dovesse girare alla grande. Ma... mi accorgo il giorno del prologo che sopra ai 170 battiti non respiro, cioè quando vado fuori soglia mi si stringe un laccio emostatico al collo. La strada che scende verso il Sud d’Italia non ti aiuterà, mi dice il dottore, l’asma allergica aumenta con l’aumentare della fioritura. Passano le tappe e la sensazione non cambia, arrivo lì, lì vicino al cambio di ritmo, la mia dote migliore, e mi blocco. E’ come una galera avere la forza sulle gambe e sentire che il respiro non basta. Un incubo la quarta tappa con arrivo a Matera: fino ai 500 metri una forza unica e poi il respiro che non arriva e mi blocco. Il giorno seguente Matteo Tosatto in fuga conquista la maglia rosa, sono in camera con lui, vedo il mio sogno lì accanto, la notte mi nascondo sotto le coperte e piango tra il nervoso e la disperazione”.
“Ma la notte porta anche consiglio, mi sveglio e devo lavorare per Matteo, di buono c’è che a fare il gregario stacchi la testa e usi la forza. Nell’altra stanza c’è Petacchi, un ragazzo che fino ad allora non ha fatto grandi cose, tutti ne conoscono la cilindrata, ma i pochi risultati lo stanno facendo precipitare, non dorme e si dispera in cerca di quelle sensazioni che non arrivano. Notti insonni con il mitico dottore Corsetti ad ascoltarlo, Ferretti bada alla squadra e se fosse stato per lui ‘il Peta’ se ne sarebbe tornato a casa. Il dottore insiste e il giorno seguente nella sesta tappa del Giro sboccia un campione. Dima Konyshev, nostro compagno che cerca punti per la maglia ciclamino, si butta in volata, io ho lavorato per la maglia rosa di Matteo e ai 2 km il mio limitatore si fa sentire, non va e mi sposto, ‘il Peta’ prende Dima ai 2 km, se lo mette a ruota, affianca il treno della Saeco e non si sposta, loro cambiano uno dopo l’altro. Io seguo il tutto da dietro restando vicino alla maglia rosa. ‘Il Peta’ non molla e accelera, aumenta e aumenta, fa fuori il treno del ‘Cipo’ e porta Dima in testa ai 200 metri che fa una volata strepitosa e vince la tappa”.
“Nasce così Petacchi, e la sua immensa autostima che lo porterà a diventare quel campione che abbiamo conosciuto, anche nove vittorie di tappa in un Giro. In squadra due maglie, la rosa e la ciclamino, e una tappa vinta. Non male, vero? Le grandi salite devono ancora iniziare e abbiamo Belli che vuole fare classifica. Il mio problema persiste e tocco il fondo nella tappa che arriva a Feltre. Sono in fuga, sto da dio, mi stacco sull’ultima salita perché non respiro, frustrato vado all’arrivo, vedo lo sguardo di Ferretti che non mi rivolge la parola e facendo così mi umilia. Poi tappe di montagna e fatiche indescrivibili, Belli va forte e dopo il tappone con il Gavia è quarto in classifica. Si arriva a Brescia con partenza da Bormio, riunione al mattino. Si lavora per Petacchi. Nel circuito di Brescia stiamo tra i primi e sto bene. Pochi chilometri all’arrivo, partiamo a tirare la volata, io, Toso, Dima, Belli in classifica e ‘il Peta’ ultimo. Tiro forte, curva e controcurva rilancio, passa Toso, mi faccio inghiottire dalla prima parte del gruppo, resto lì e guardo che a Belli non succeda nulla, al chilometro si aprono, trovo un varco che mi risucchia, ho Flavia e mio papà all’arrivo. Ok, provo a piazzarmi, ho una carta e la gioco. Ai 300 metri parto lungo per arrivare a ruota dei primi e infilarmi dentro e dietro cercando di portar a casa un po’ di morale. Esco a sinistra a tutta e recupero, ma Belli che era tra i primi si sposta, smette di pedalare, è nella mia traiettoria, solo che io faccio i 65 e lui i 55 all’ora. Lo sto per tamponare e vedo passare davanti a me l’umiliazione di buttare giù un compagno in classifica, mi sposto a sinistra sapendo che non schiverò la transenna eeeee bum!”.
“La prendo. Mano, braccio, spalla e testa. La bici vola. Poi il siilenzio. Sono sdraiato a terra, silenzio, sento il fresco del sangue sull’occhio scendere verso la bocca, alzo il mento con fatica e guardo il cielo. Vedo mio papà sopra di me, rosso in viso al limite dell’infarto. Proprio qui, con tutti i metri di rettilineo sono finito sotto la transenna davanti a lui. Lo guardo, mi tolgo la maglia di scatto, la fisso in testa come un turbante e gli dico ‘vecio, non me son fatto gnente’. Mi rialzo attorniato da medico, massaggiatore e compagni, cerco la bici ma non c’è più, volata sopra le transenne, ma devo passare l’arrivo, fermo Oscar Freire, mi faccio dare la sua bici e passo la riga d’arrivo. Poi corro in ambulanza, il dottor Tredici – un santo - mi dice ‘faccio subito?’, sì, mi aggiusta la testa con 15 punti a freddo o caldo senza anestesia. La sera troverò Flavia, io con due dita legate, ghiaccio in testa e il collo bloccato”.
“Farò ancora sei tappe dure, con tenacia e grugno rabbioso, perché? perchè non mollo! Arrivo a Milano distrutto, la sera mi rilasso e mi blocco completamente schiena e collo mangiando una pizza, vado all’ospedale e mi trovano lesione tendinea a due dita della mano sinistra, le prime a prendere la transenna, lesione alla prima vertebra cervicale, lesione al tendine della spalla. Due giorni dopo Ferretti mi convoca per il Giro del Lussemburgo e sono costretto ad andarci con il gesso”.