Mi scuso subito, ma proprio non ho intenzione di partecipare alle esequie per Bernal. Certo ho visto in quale modo orrendo arrancava a un certo punto, ma proprio per questo vedere che poi alla fine ci rimette solo 50'' mi fa pensare a una giornata persino positiva, perchè se prendi la bambola e salvi le ossa vuol dire parecchio. Adesso si sente un nuovo slogan risuonare da tutte le parti, Giro riaperto, Giro riaperto, perchè effettivamente mancano ancora due giornate di salita, ma ci fosse un cane che ricorda pure la giornata di domenica, 30 chilometri a cronometro, guarda caso una pista di lancio ancora per Bernal.
Comunque: sempre viva il Giro se ogni giorno riesce a raccontare nuove storie, lasciando alla larga la noia di tante annate monotone e insulse.
Prima di affrontare le ultime, decisive questioni, a me pare però doveroso erigere subito, qui, sul posto, un monumento a Damiano Caruso. Glielo dobbiamo, come italiani e anche come appassionati di ciclismo. Io lo sento come un dovere civile.
Nel ciclismo dei giovani fenomeni, lui non è giovane e non è nemmeno fenomeno, però sta impartendo ogni giorno lezioni stupende di resistenza, di intelligenza, di lucidità, a dimostrazione che persino nel Giro atomico delle tappe brevi ed esplosive un bel motore diesel può portare lontanissimo. Magari non sgasa mai facendo fumare le gomme, magari il silenzio di nessuna montagna sarà mai squarciato dallo stridore delle sue accelerazioni, ma tutti quanti possiamo stare sicuri che il Damiano sarà sempre lì, più Gattuso che Del Piero, più Mazzinghi che Benvenuti, più Dovizioso che Valentino, comunque incrollabile e inaffondabile.
A occhio e croce il nostro italiano vero rischia più di perdere il secondo posto che di prendersi il primo, se davvero questo Yates è così vero. Ma cambia poco, proprio niente. Secondo o terzo o quarto, Caruso ha comunque tenuto in piedi da solo l'identità italiana, magnifico sovranista dei valori più belli, primo fra tutti la nostra attitudine a dare il meglio proprio nei momenti peggiori, quando tutto gira di traverso e chi non ha spina dorsale cola a picco, magari in un coro di piagnitesi.
A Caruso è andato tutto di traverso da subito, praticamente prima ancora di cominciare, ritrovandosi la squadra dimezzata per una serie imprecisata di sinistri (premio PediJella, ora insidiato dalla premiata ditta Nibali-Ciccone). Eppure proprio da quel cumulo di macerie Caruso ha saputo cogliere l'opportunità per ricominciare e ricostruire, inventandosi sui due piedi un Giro da capitano e da alta classifica.
Mentre dibattiamo di Campo Felice e Zoncolan, di Cortina e Sega di Ala, riguardandoci al Var gli alti e bassi di questo e di quello, ora persino di Bernal, nessuno deve dimenticare che Caruso invece c'è sempre stato, a modo suo, con la sua costanza, la sua affidabilità, la sua regolarità, prendendo magari qualche cazzotto, ma senza mai toccare il tappeto, al grido molto tricolore del mi piego ma non mi spezzo. A 33 anni è un bell'andare, soprattutto per chi ha sempre sudato per gli altri e mai per sé.
Personalmente non mi vergogno a dirlo, dato che le ipocrisie non mi piacciono proprio per niente: mai e poi mai avrei pensato all'inizio di ritrovarmi a tifare Caruso. Ma adesso, nel momento di arrivare al dunque, mi scopro a cercarlo nelle immagini, a controllare i suoi tempi, a osservare la sua pedalata e le sue smorfie. Sono un tifoso conquistato, non credo neppure il solo. Da qui alla fine, orfanello di Nibali, l'italiano che si agita dentro di me soffrirà per Damiano. Secondo, terzo, quarto, meglio secondo che quarto, ma cambia poco. Resta l'orgoglio di una presenza continua, rassicurante come una polizza assicurativa, tranquillizzante come una garanzia senza scadenza. E' il ciclismo imperturbabile e roccioso che supera tutte le mode. Non sarà l'ultimissimo modello, ma è il nostro Carusato sicuro. Peccato che abbiano buttato via lo stampo.