Era il re della fuga. Scattava, attaccava, allungava, insisteva, resisteva, arrivava. La fuga come stato di bisogno, come carta di identità, come filosofia di corsa. La fuga come senso della vita.
Roberto Pagnin da Galta di Vigonovo, Riviera del Brenta, non più Padova ma già Venezia. Papà calzolaio, mamma casalinga, nonno appassionato di ciclismo. Un regalo del nonno, la prima bici, di ferro: “Le tolsi i parafanghi e la trasformai da corsa. A quel tempo, o pallone o bicicletta, o calcio o ciclismo. A calcio – mi spiegò il nonno -, su cento ce la fanno in due o tre. Nel ciclismo dipende solo da te. La seconda bici era da corsa. Ormai avevo deciso quale fosse la mia strada”. La strada di Pagnin? La strada. “La prima corsa in paese, a Fiesso d’Artico. Categoria giovanissimi. Sette anni. Un circuito da ripetere un po’ di volte. Nel finale sbagliai strada: un addetto mi indicò di andare da una parte, ma non era quella giusta. Pensava che fossi uno dei doppiati, invece ero in fuga. Tornai indietro, inseguii, rimontai. Terzo. Non potevo neanche prendermela troppo. La corsa era stata organizzata proprio da mio nonno, che allora era anche il vicesindaco del paese”. Ci mise poco a vincere: “Sempre da giovanissimo, vicino a casa, a Saonara. Ma in volata”. Una stranezza, la volata, quasi un disonore se paragonata alla fuga.
Pagnin non si faceva condizionare dalla lunghezza delle fughe, anzi: “Al Midi Libre, nel 1989, con la Malvor-Sidi. Una settimana, a tappe, fra Giro e Tour. Una settimana da fughe. Quel giorno quasi duecento chilometri all’attacco, fino a dodici minuti di vantaggio. Il vento contro. Scoppiai che ormai c’era aria di traguardo, saranno mancati cinque chilometri. Non riuscivo più ad andare avanti. Il giorno dopo ero morto. Non mi ritirai, ma fui tutto il giorno precario”.
Pagnin, in fuga, era un uomo (e un corridore) felice: “Alla Vuelta, nel 1987, con la Gewiss-Bianchi. Da Selou a Barcellona, pronti via fuga, da solo, poi raggiunto da un francese, Henri Abadie, della Fagor, una squadra spagnola. Era la quinta tappa ed era il quinto giorno in cui ci provavo. Stavolta andò bene. Cambi regolari, come in una cronocoppie. Ai meno dieci detti l’anima. Si arrivava al velodromo. Non ci fu storia. Quei giorni volavo. E attaccavo. Secondo a Pamplona, terzo a La Coruna, quinto a Vigo, ancora primo a Valladolid, stavolta completamente da solo, nel senso che ero rimasto l’unico della mia squadra ancora in corsa. A quattro giorni dalla fine mi ritirai e tornai in Italia. C’era il Giro di Toscana: terzo. Poi il Giro d’Italia”. Ma il lieto fine non era mai scontato, anzi. “Alla Milano-Sanremo, nel 1989, con la Malvor-Sidi. Giornata da fuga e fuga a quattro, sul Turchino: Chiappucci, Cassani, Lietti e io. Io e Lietti compagni di squadra. Tutti d’amore e d’accordo: una santa alleanza. Sul Berta, a una quarantina di chilometri dal traguardo, avevamo cinque minuti di vantaggio. Poi il gruppo reagì. Fummo disintegrati. In venti chilometri raggiunti e inghiottiti. Vinse Fignon, e nessuno di noi quattro arrivò in fondo”.
C’erano fughe dolci: “Alla Tirreno-Adriatico, nel 1986, con la Malvor-Bottecchia. Quattro giorni, quattro tappe. Vinsi la terza tappa, la Monopoli-Alberobello, inseguito a blocco dalla Del Tongo di Saronni, e indossai la maglia bianca di leader, dieci secondi di vantaggio su Beppe. Il giorno dopo fui attaccato dal primo all’ultimo chilometro, c’è chi definì il percorso come un toboga, esasperante. L’arrivo su uno strappo. Vinse, in volata, Saronni, terzo Moser, io finii nel primo gruppo, sedicesimo, ma con lo stesso tempo, e salvai il primato per un solo secondo su Saronni. E pensare che, dopo l’arrivo, Saronni quasi si arrabbiò, me lo potevi dire che ci tenevi così tanto?, e mi confidò, avrei fatto meno fatica”. Ma c’erano anche fughe amare: “Al Giro d’Italia, nel 1985, con la Malvor-Bottecchia. Ero al primo anno da professionista. Cercavo gloria, fama, successo. Cercavo la vittoria. E la cercai – il nome mi sembrava un augurio – a Vittorio Veneto, tanto più che a Vittorio Veneto c’era la sede della Bottecchia. Era la Selva di Val Gardena-Vittorio Veneto, duecentoventicinque chilometri sotto l’acqua, e io con la pioggia mi esaltavo. Il Sant’Angelo, il Tre Croci, sul Fadalto sentivo le gambe ok e partii. Fuga a quattro: mi raggiunsero Bombini, Amadori e Volpi. Poi, sulla strada bagnata e l’asfalto fradicio, Volpi scivolò e cadde. Volata a tre: vinsi facilmente. Poi fui declassato, secondo, perché colpevole di avere stretto Bombini. Non era vero. Ci sono i filmati su YouTube: io sempre davanti a tutti. Ma a quel tempo la Del Tongo di Colnago e Saronni comandava e la Malvor di Zandegù e del neoprofessionista Pagnin si adeguava. Per me, però, quella rimane una vittoria. Fui io a passare per primo sul traguardo, con merito e senza trasgressioni”.
Ci fu anche una fuga romantica: “Alla Vuelta, nel 1987. Mi avevano attribuito un flirt con una miss, Leticia Sabater, bionda ed esuberante. Diciamo che fra noi c’era una certa simpatia. Reciproca. E siccome fra vittorie e podi, maglie amarillo e premi per il più combattivo, salivo spesso sul palco, lei ormai mi aspettava a braccia aperte. Nacquero leggende. I giornalisti ci ricamarono. Mi chiamavano ‘Gigi el Amoroso’, mi classificarono ‘el terror de los nenas’. Ero diventato un personaggio, il playboy in bicicletta. Ma era un titolo usurpato”.
Non è semplice scegliere la fuga più bella di tutte: “Al Giro del Veneto, che per i veneti valeva quasi come il campionato del mondo, nel 1989, con la Malvor-Sidi. Me la sentivo dentro: una sensazione, anche un sentimento, inspiegabile, c’è e basta, perché se c’è c’è, e se non c’è non c’è. La vigilia, la sera, a cena, mentre gli altri, da Saronni a Contini, facevano piccole eccezioni alle regole, io mi attenni rigorosamente al riso in bianco e alla bistecca. L’arrivo era fissato a Padova. Respiravo aria di casa. Vinsi per distacco, un paio di minuti di vantaggio su Maurizio Fondriest, maglia iridata, campione del mondo in carica”.