Via, bisogna essere leali e onesti, giusto il minimo, non possiamo usare due pesi e due misure. Per parte mia lo sento come un dovere, e allora sono qui sereno a dire che Nizzolo vale Ewan, che questa fregola dei velocisti di lasciare il Giro dopo la vittoria è comprensibile o censurabile allo stesso modo, per australiani e italiani, turchi e cinesi.
L'abbiamo già detto, non è un fenomeno nuovo: la fuga dei velocisti non è mai verso il traguardo, ma verso il primo aeroporto sottomano. S'è sempre fatto e sempre si farà, eppure c'è modo e modo. E comunque non l'hanno sempre fatto tutti. Io ricordo per esempio un certo Zabel che alla sola idea di un ritiro anticipato, senza motivi seri, si sarebbe fatto martellare un alluce. E' un esempio, ce ne sono tanti. La domanda che dobbiamo porci è una sola: è poi così accettabile questo atteggiamento, fa bene o fa male al Giro, serve o non serve al ciclismo?
Io non ho una risposta assoluta, che valga sempre e per tutti. Mi è però molto chiaro che abbiamo preso una piega precisa, con poche vie d'uscita. Siamo davanti a un nuovo metodo, a uno schema di gioco piuttosto rigido: adesso i velocisti vincono e se ne vanno, qualcuno inventando scuse, qualcuno come Nizzolo ammettendo solare e sereno “troppa fatica in montagna”.
Cioè, leggendo tra le righe: il velocista non vuole più soffrire inutilmente. Tutti quei chilometri di salita, chi me lo fa fare, a che servono. La risposta, una volta, era molto elementare: prima di essere un velocista sei un ciclista, la fatica e la montagna fanno parte del tuo mestiere, bisogna farlo in tutto e per tutto, per onorare il Giro e rispettare i tifosi.
Lo so, adesso questi discorsi suonano vagamente obsoleti, risultano freschi come fossili, convincono come le paternali dei tromboni d'anteguerra. Lasciamoli perdere, allora, proviamo a ragionare con l'alfabeto della modernità.
A poco vale l'obiezione che non mettere lo sprint nell'ultima tappa li fa scappare prima: non sta in piedi, stavolta ad esempio c'è ancora Stradella, eppure gli appagati come Ewan e Nizzolo se ne sono impippati tranquillamente.
Niente da fare, il nuovo codice prevede lo sprinter part-time, giusto il necessario, chi vince va a casa e chi perde resta finchè gli riesce di vincere, per cui alla fine riesce a vincere anche il peggiore, per ritiro degli altri.
Di più: stiamo lavorando alla neutralizzazione dei tempi negli ultimi 10 chilometri, i 3 di adesso non bastano, perchè i velocisti possano avere tutto lo spazio necessario, senza inconvenienti e seccature, buttiamo giù l'11 e sviluppiamo il massimo della velocità, ciascuno nella propria corsia, indisturbato, come nella finale dei 100 alle Olimpiadi. Basta con l'acrobazia, il coraggio, l'astuzia: contano solo i watt.
Di più, ancora di più: per evitare le inutili fatiche delle salite, finiremo per programmare cinque-sei tappe tutte e subito in avvio di Giro, così i velocisti fanno il loro e poi tolgono il disturbo, lasciando le montagne agli specialisti di quel settore.
Certo, di questo passo corriamo dritti alla super-specializzazione, all'eccesso estremo di specializzazione: sarà normale che uno sprinter arrivi, vinca la prima tappa e poi si ritiri, perchè il resto avanza.
E' così che vogliamo il ciclismo di domani? E' questo il profilo di velocista che abbiamo in mente?
La discussione è aperta. Però attenzione, ragazzi: l'ultima deriva di questo nuovo mondo è il ciclismo virtuale, con l'abolizione definitiva della strada e gli atleti messi su una bici stanziale, dentro un comodo studio, davanti a un video. Qualcosa del genere abbiamo già assaporato durante il lock-down, con tutte quelle corse da casa che hanno invaso la nostra vita. Io lo confesso, a quel tempo avvertivo solo una pesante tristezza. Se questo è il nuovo, fatemi scendere.