GIRI & GIRINI. GUIDO NERI E QUEL PUGNO SUL NASO BENEDETTO

STORIA | 20/05/2021 | 07:50
di Marco Pastonesi

Storie di corse e di corridori, di maglie e di mogli, di tappe e di toppe, di scatti e di cotte, e perfino di qualche vittoria. La sesta puntata è dedicata a Guido Neri, che Gino Bartali chiamava “Negretto”.


Otto Giri d’Italia, tutti e otto finiti, ma neanche una tappa finita al primo posto. Ci andai vicinissimo: secondo a San Marino nel 1969 dietro a Bitossi ma davanti ad Altig, quel giorno Bitossi era il più forte e se fossimo arrivati tutti e tre insieme Altig non mi avrebbe lasciato nemmeno il secondo posto; terzo a Lido degli Estensi nel 1967 dietro a Merckx e, solo al photofinsh, anche dietro a Planckaert, gli amici mi avevano consigliato di andare a vedere il percorso, scoprii che a 6-700 metri dall’arrivo c’era un curva prima di un ponte militare stretto e bisognava stare davanti, lo feci, ma quando Merckx partì, non ci fu più niente da fare; e come se non bastasse, quarto a Cuneo nel 1964 e quarto anche a Maratea nel 1965”.


Guido Neri ereditò la passione dal padre: “Avrebbe voluto correre, ma il nonno non glielo permise: burdèl - gli diceva - c’è la vigna da vangare. Contadini, ma di quelli poveri, di quelli che non avevano neanche le lacrime per piangere. A forza di vangare, mio padre imparò anche a potare e innestare. E per potare e innestare andava in bici – la sua passione, appunto – da Cesena a Cattolica, sveglia prima dell’alba, 40 chilometri ad andare e 40 a tornare, con le forbici e le seghe avvolte in un foulard e legate al corpo, perché le bici non avevano i portapacchi, e dentro anche piadine, due fette di salame e un uovo sodo. Divenne così bravo che fu chiamato a lavorare nella Bassa Reggiana, fra Novellara e Guastalla, in un’azienda modello, la gente veniva a vederla in pullman, si abitava in case coloniche bianche con le finestre verdi, le stalle con gli abbeveratoi, la sera le donne si riunivano per lavorare a maglia e gli uomini per giocare a carte. Alle elementari e alle medie andavo a piedi, se sei promosso – mi promise mio padre – ti do la bici da corsa, e così fu”.

Aveva 15 anni, Guido: “Me ne mancava ancora uno per poter correre. Mi iscrissi a una polisportiva, la squadra di ciclismo era al completo, piuttosto che stare fermo entrai nella squadra di pugilato. Il maestro era stato campione europeo dei mediomassimi, aveva combattuto anche per il titolo mondiale ma era stato battuto da un americano. Finché si tiravano pugni al sacco, nessun problema. I problemi cominciarono quando il maestro mi chiamò sul ring. Copriti!, copriti!, mi ordinava. Mi fece una finta, e io mi coprii, un’altra finta, e io mi scoprii, e mi piazzò un cazzotto sul naso. Il sangue scorreva come se fosse stato aperto il rubinetto. Mi tolsi i guantoni, tornai nello spogliatoio, tamponai il sangue con un fazzoletto, poi restituii tutto, arrivederci e grazie. Per mia fortuna, nel frattempo si era liberato un posto nella squadra di ciclismo perché a un corridore era venuta la pleurite. La prima corsa la vinsi. E poi vinsi anche il campionato italiano allievi Uisp”.

Nove anni da professionista, ma con qualche mese da disoccupato: “L’esordio nel 1962 nella San Pellegrino, il direttore sportivo era Gino Bartali, un giorno proprio al Giro si arrabbiò con la squadra, e anche con me, disse che non avevo fatto quello che mi aveva ordinato. Gino - gli feci - posso dirti una cosa? Se non sono stupidaggini, mi rispose. Io ce l’ho messa tutta - gli spiegai - ma se riuscissi a fare quello che mi dici tu, lo farei da solo senza che me lo dicessi, e non sarei un gregario, ma il capitano. Poi la squadra si sciolse, Bartali ci disse di insistere, continuammo a correre con una maglia di cotone nera sopra quella della San Pellegrino, finché nel 1963 si trovò un altro sponsor, la Firte. Ma alla fine dell’anno anche quella squadra si sciolse senza pagare quanto ci era dovuto. Io non mi arresi: noleggiai un furgone, andai nella sede di Genova, caricai l’equivalente del mio credito in lavatrici e frigoriferi, tornai a casa e li distribuii a parenti e amici. Poi cominciai a lavorare la mattina per l’Intendenza di finanza recapitando bollette da pagare e continuai ad allenarmi il pomeriggio con lo scatto fisso”.

Il “Negretto”, così lo chiamava Bartali, non era tipo da rassegnarsi: “Alla Milano-Sanremo del 1963 avevo vinto il traguardo volante di Alassio. Il premio consisteva in due settimane di vacanza per due in un albergo di Loano. Ci andai con il mio amico corridore Tienno Paterlini. E ci aggiunsi una terza settimana pagando di tasca mia. Nell’albergo c’era anche la Lygie, così Giannetto Cimurri, di nascosto, mi massaggiava gratis. Si inaugurava la stagione 1964, stavo bene, volli provarmi, c’era il Gran premio di Cannes, bici più treno ci andai, entrai in un bar, chiesi se ce’era una pensioncina economica, l’albergatore mi dava una camera quasi gratis ma non poteva prepararmi una colazione a quell’ora così presto la mattina, tornai nel bar e il barista mi promise una colazione da corridore. Pronti, via, quasi subito in fuga, ripresi a 3-4 chilometri dall’arrivo, controfuga in tre, vinse Poulidor, feci ancora in tempo ad arrivare secondo o terzo nella volata di gruppo”.

Così arrivò la vittoria: “Trofeo Laigueglia, tre volte il Testico, volevo strafare, Pambianco e Baldini mi dissero di non correre dietro a tutti, scattai al momento giusto. Tornai in albergo, mi chiusi in camera, feci il bagno. Arrivò una telefonata, la prese un cameriere, l’ha chiamata - mi disse - un certo signor Albani. Era il direttore sportivo della Molteni. Che felicità. Mi ingaggiò”.

A 82 anni, Guido Neri va sempre in bicicletta: “Mio figlio voleva regalarmi una bici con il motore. Insisto con le mie gambe. E quando le gambe mi fanno male, una volta tiravo giù la testa e spingevo, adesso la alzo e mi fermo. E finalmente mi guardo intorno”.


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