Storie di corse e di corridori, di maglie e di mogli, di tappe e di toppe, di scatti e di cotte, e perfino di qualche vittoria. La quinta puntata è dedicata a Franco Magnani: “il garibaldino di Romagna”.
Giro d’Italia 1963. Aveva studiato e preparato due tappe: la quattordicesima, la Saint Vincent-Cremona, e la quindicesima, la Mantova-Treviso. “La prima finì in volata: primo Marino Vigna, decimo io. L’altra nacque storta. Pronti-via, forò Battista Babini, mio compagno di squadra nella Salvarani. Luciano Pezzi, il nostro direttore sportivo, mi ordinò di fermarmi e aspettarlo. Intanto il gruppo andava via a cinquanta all’ora. Rimorchiai Babini, ma quando lo riportai dentro, era andata via una fuga con una quindicina di corridori. Da solo, evasi dal gruppo e ripresi i fuggitivi. Poi, non soddisfatto, sapendo che in volata non avrei avuto scampo, tentai più volte di andarmene. Mi riuscì in compagnia di Nelvio Vitali, un marchigiano della Springoil. Poi l’arrivo a due, gli altri dietro che rinvenivano forte. Sapevo che ai 300 metri c’era una curva a gomito, pericolosa. Lasciai passare davanti Vitali, lui la prese forte e andò diritto, io lo passai all’interno. E intanto gli altri erano ormai lì. Vinsi con le braccia al cielo, poi Bruni, Bailetti, Pifferi, Fornoni... E Balmamion in maglia rosa. La sera, a tavola, a cena, con la tv accesa, bocche chiuse, musi lunghi, solo io mi guardavo le immagini registrate, finché Arnaldo Pambianco sbottò: che cos’è questo mortorio?, ha vinto uno di noi, uno della Salvarani. E solo allora ci fu qualche commento”.
Franco Magnani, 83 anni, è l’ultimo cesenate ad aver vinto una tappa del Giro: “Avevo 25 anni, quello era il mio terzo anno da professionista e quella era la mia prima vittoria da professionista. Ma non avrei dovuto vincere. Nella nostra squadra c’erano più capitani che gregari, e io, gregario, avrei dovuto farmi in quattro per aiutare senza neanche tentare di entrare in una fuga, figurarsi vincere. Tant’è che, se non avessi vinto, sarei dovuto tornare a casa. E pensare che la mia natura era provarci, tentare, attaccare, infatti per il mio spirito libero mi chiamavano ‘il garibaldino di Romagna’, e invece fui costretto ad attaccare di soppiatto, contravvenendo a ordini e direttive di Pezzi”.
Magnani, contagiato da una passione familiare (“Andavo a veder correre un cugino, Magnani anche lui, che gareggiava fra i liberi, cioè quelli non tesserati per l’Uvi, l’Unione velocipedistica italiana”), acquistò la prima bici a pezzi (“Nel negozio di Mario Vicini, gloria del ciclismo italiano ai tempi di Bartali e Coppi”), il primo pezzo fu il pedale sinistro (“Con i soldi delle mance o per i gelati, risparmiati, e siccome erano pochi, li investivo a puntate”), dopo due settimane quello destro (“Vicini si era sorpreso: io, mi spiegò, di solito i pedali li vendo accoppiati”), ci volle un anno per arrivare al telaio (“Costava ventimila lire, e non le avevo, fui soccorso dalla colletta fra gli amici del babbo”), così finalmente Vicini assemblò tutto in una bicicletta (“I pezzi li custodivo, per prudenza, sotto il letto”). Così Franco poté cominciare a correre (“Ma non potevo, avevo quindici anni, ce ne volevano sedici, e allora partecipavo anch’io come libero”), e cominciare anche a soffrire (“Ogni volta foravo una o due volte, sarà stato che dopo aver speso tutto per la bici, potevo spendere poco o niente per le gomme, erano usate e consumate, e me le riparavo da solo”), infine ufficialmente anche da esordiente (“Quattro vittorie il primo anno, da attaccante, per distacco, perché se non arrivavo da solo, non vincevo”).
E via, avanti così, gli anni più veloci, più leggeri, più divertenti. “Gli anni delle corse. Dilettanti, il mio avversario era Guido Neri. Cesenati, ci allenavamo insieme, correvamo contro. E siccome lui era più veloce di me, dovevo staccarlo prima di arrivare. Quella volta che si correva a Martorano, il suo paese, lo sorpresi: Neri aveva chiesto ai compagni di tenermi d’occhio, invece io, pronti-via, andai in fuga con altri due o tre, Neri mi cercava e non mi vedeva, dov’è? dov’è? dov’è?, mi intravvide davanti e venne a riprendermi, sull’ultima salita eravamo rimasti solo noi due, io e lui, lui e io, un vero duello, in discesa lui forò e io volai via, senonché poi forai io e lui mi superò con un un corridore a ruota, per farla breve vinse quello lì, Antonio Tagliani, che sarebbe diventato campione del mondo nel quartetto della cento chilometri, e poi Guido mi bruciò in volata per il secondo posto”.
Ma un garibaldino, anche in bicicletta, doveva respirare l’aria della battaglia e lo spirito della libertà. “Al Tour de France ebbi una buona occasione, la tappa di Bordeaux nel 1962, in fuga con altri quattro, ma tutti più veloci di me. Provai a mollarli, non ci riuscii. Finì in volata, primo Toni Bailetti, terzo io, però vincitore del premio della combattività. Ci riprovai. Un giorno presi il largo, venne a prendermi la squadra di Jacques Anquetil, che poi si affiancò e mi chiese scusa, ma non poteva lasciarmi andare. Quel Tour finì storto, rimanemmo in quattro, tutti gregari, sul Tourmalet mi staccai, cercavo di esssere spinto, avevo imparato che in francese si dice ‘pousse’, Pezzi mi indicò una bella ragazza che – pare – spingeva tutti, quando giunsi vicino a lei la implorai ‘pousse, pousse’, non era bella ma bellissima, mi spinse, e quando non ne poteva più, la abbracciai, e cademmo insieme a terra. La più dolce, la più affettuosa, la più bella caduta della mia vita”.
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