Storie di corse e di corridori, di maglie e di mogli, di tappe e di toppe, di scatti e di cotte, e perfino di qualche vittoria. La quarta puntata è dedicata a Michelangelo Cauz.
Il suo primo Giro d’Italia, anno 1996, lo concluse alla penultima tappa: “La Cavalese-Aprica, 250 chilometri e quattro salite, Tonale, Gavia, Mortirolo e Aprica. Fra Tonale e Gavia il gruppetto tirò diritto, in discesa, per l’Aprica. A comandare erano i vecchi, e ai vecchi non si diceva mai di no. Lo ammetto: fu un errore. Se potessi tornare indietro, andrei all’arrivo”.
Il suo secondo Giro d’Italia, anno 1997, lo concluse al centonono posto: “A quattro ore, cinque minuti e quarantaquattro secondi da Ivan Gotti vincitore, ma quasi diciassette minuti davanti a Marco Antonio Di Renzo. Insomma: penultimo. E pensare che ci avevo provato in tutti i modi ad arrivare ultimo, avrei dato un senso alla corsa, sarei entrato nella storia. Ma Di Renzo, per lentezza, era imbattibile”.
Michelangelo Cauz. Il nome: “Angelo, il nonno. Michelangelo Minel, un vicino che correva in bici, fino ai dilettanti. Mia madre mise tutto insieme e mi chiamò così. Un nome pesante, così pesante da essere tagliato in Michi o Miki”. Il cognome: “Più leggero. Caùz, ma anche Càuz, va tutto bene”. La passione: “Uno zio andava in bici, noi fratelli – io il terzo dei tre – cominciammo così, per giocare e per ridere, non per vincere, perché per vincere si vinceva poco”. La bici: “La prima, d’acciaio, quindici chili, fu la Federazione ciclistica a passarla all’Orsago”. Le corse: “Le prime, da esordiente, ero sempre fermo, un po’ perché non sapevo, un po’ perché cadevo, un po’ perché foravo, molto perché non mi allenavo. Il secondo anno andò meglio, e vinsi, la prima volta a Sospirolo di Belluno”. Il fisico: “Crescevo, in base per altezza, salito fino a 1,84 per 80 da dilettante, sceso a 1,84 per 73 da professionista. Pianura e discesa bene, salita meno. Reggevo sugli strappi, cedevo sui calvari. La tentazione era quella di farsi spingere dai tifosi, ma capii che era peggio. Perché sul momento, e per pochi momenti, godi di un certo sollievo, ma poi ti senti ancora più pesante e più debole”.
Attaccante per carattere: “Aria, vento, avventura. Scatti, fughe, offensive. Anche in maniera sconsiderata. La mia strategia era pronti e via, testa bassa e menare. Ma mi dovevo frenare, un po’ per aiutare i capitani, un po’ per obbedire ai direttori, un po’ per salvare il posto di lavoro. Gregario fisso, ero un corridore da nord. Nord Italia e nord Europa. Un terzo e un quinto alla Quattro giorni di Dunkerque, un terzo e un sesto alla Tre giorni di La Panne. Al Fiandre, la prima volta forai quando andavo forte, la seconda volta non stavo bene. Alla Roubaix, la prima volta forai quando ero davanti, la seconda volta avevo la febbre. Forare era una fregatura: rimasi dieci minuti con la gomma in mano ad aspettare l’ammiraglia. Ma il mio più grande rammarico è per il Gran premio della Liberazione nel 1994: fuga a quattro, si restò in due, volata, io e un danese, Alex Pedersen, quattro anni da professionista, poi tornato dilettante. Vinse lui”.
Sincero per natura: “Vita da atleta, mai. Non per il mangiare, riuscivo a contenermi, e neanche per il bere, io sostengo che qualche bicchiere - non qualche bottiglia - di vino fa bene. E in più andavo a letto presto la sera, ma durante il giorno mi ammazzavo di lavoro. Il mio ciclismo era correre: centoventi giorni il primo anno, centoquaranta il secondo, il terzo non trovai ingaggio e fui costretto a smettere. Ma restai fra le bici. Cinque anni da meccanico, anche per Paola Pezzo, dal 2002 al 2019 con un negozio a Vittorio Veneto, chiuso per stress, quelli che chiedevano l’impossibile, quelli che pretendevano lo sconto, per me riparare un telaio o perfezionare una posizione o elaborare un congegno significava affrontare un problema e risolverlo, invece mi venne la nausea e cambiai aria. Trovai lavoro nella nettezza urbana, ed è quello che sto facendo, contento: orario dalle quattro a mezzogiorno, e il pomeriggio libero per dedicarmi ancora alle bici, ma quelle degli amici, di chi so che non mi assilla con i miracoli e non esige lo sconto”.
Filosofo per esperienza: “Il bello della bicicletta? Uscire il sabato o la domenica, pedalare, respirare, guardare, da solo o al massimo con un amico, e rilassarsi. Il brutto della bicicletta? Se smetti per un po’, poi ricominci da zero, come se fossi un esordiente. Il bello del ciclismo? La gente, incontrarla, conoscerla, riconoscerla. Il brutto del ciclismo? Quando non conosci più nessuno. Il bello della vita? Le amicizie, com’era quella con Denis Zanette, stessa età, stesso accento, stesso fisico, stessa grinta, insieme in allenamento, contro in corsa, lui più forte di me in volata, anche il giorno prima di morire era venuto a trovarmi in bici, poi il destino, e il destino – si sa – mischia le carte”.
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