Storie di corse e di corridori, di maglie e di mogli, di tappe e di toppe, di scatti e di cotte, e perfino di qualche vittoria. La terza puntata è dedicata a Tullio Bertacco.
Abitava a un bivio. Il venerdì si metteva in allerta: se a un palo o a un albero o a un cancello attaccavano una freccia, voleva dire che di lì il giorno dopo sarebbe passata una corsa. E allora il sabato si rimetteva in allerta: e presidiava il bivio finché non arrivavano i corridori.
Fu così che Tullio Bertacco da Marostica s’innamorò del ciclismo. Il bivio, le corse e i corridori, poi la bici della mamma, e tutte le volte che – sulla bici della mamma – cercava di stare a ruota di chi usciva, di chi girava, di chi si allenava. “Poi la prima bici da corsa, una Frejus, prestatami da uno zio che gareggiava. Avevo 16 anni, la bici il doppio o il triplo, ma con due o tre spennellate di colore le restituii la vita, e ogni due o tre giorni grattavo i raggi arrugginiti con la carta vetrata fino a farli brillare. Poi le prime pedalate, nei dintorni, sulla pedemontana, sulla Rosina, sull’altopiano di Asiago. E poi, finalmente, le corse”.
Del 1957, professionista dal 1979 al 1986, sei Giri d’Italia e una quasi vittoria. “Giro del 1983. Prima tappa, da Brescia a Mantova, 70 chilometri a cronosquadre. Bianchi-Piaggio. Partimmo a tutta, arrivammo a tutta. Primi. Nettamente. All’ultimo chilometro ero alla ruota di Fons De Wolf, il nostro belga. In curva gli scoppiò un tubolare. Fu costretto ad allargare. E io gli andai dietro. Persi le ruote dei miei compagni. Come il vagone di un treno che deraglia e finisce su un binario morto. Inseguii. Ma arrivai qualche secondo dopo gli altri. E nella formazione vincente – prima la Bianchi-Piaggio, maglia rosa lo svedese Tommy Prim - il mio cognome non c’è. Giancarlo Ferretti, il nostro direttore sportivo, cercò di consolarmi: hai vinto anche tu, continuava a dirmi. Ed era vero: avevo dato tutto me stesso. Ma in 69 chilometri, non in 70. Quella sbandata non ci voleva. E ancora non mi do pace”.
Era un bel guerriero, Bertacco. “Cominciai a correre a 17 anni, iscritto per l’Artuso Lievore Detersivi Breganze, su una bici d’acciaio, una Scapin, che aveva già i raggi lucidi senza doverli scartavetrare. La prima gara a circuito a Rossano Veneto: il primo giro era di ricognizione, invece ci fu una caduta, la corsa esplose, il gruppo andò in fuga. Inseguii. La finii. Ferito ma contento. La prima vittoria giunse alla mia corsa numero 13, il giorno 13, con il dorsale 13. C’era di che diventare superstiziosi. A Montecchio Precalcino, su una salitella sterrata – la Motta del Diavolo – ci fu una strage di gomme, fui fortunato, mi ritrovai in testa con altri quattro o cinque, la volata era su un rettilineo in leggera ascesa, partii a tutta e arrivai primo. Quel giorno mi dissi che nel ciclismo avrei potuto fare qualcosa”.
E lo fece. “Mi piaceva provarci, attaccare, dare battaglia. Come nella Milano-Sanremo del 1980. Andai in fuga a Binasco. A Voghera si unirono Tosoni e il belga De Brulé. Sul Turchino scattai per aggiudicarmi il gran premio della montagna. Poi Tosoni disse di stare male e De Brulé di non poter tirare perché il suo capitano era De Vlaeminck. Così mi toccò tutto il lavoro, da solo, controvento, su e giù per i capi. Una babilonia. Finché venni raggiunto a una dozzina di chilometri dall’arrivo, prima della galleria che porta al Poggio, dopo 245 chilometri di fuga su 288. Peccato. Se il gruppo avesse dormito ancora un po’, mi sarei svegliato dal sogno di diventare un campione, mi sarebbe cambiata la vita”.
Una vita da gregario. “Non avevo le qualità per vincere. Uno strappo alla schiena mi stava togliendo anche le qualità per correre. Poi mi ripresi. Davo quello che potevo. E i capitani apprezzavano. Da Prim a Contini, da Argentin a Martens, con cui dividevo la camera nel periodo delle classiche del nord”. Che vita, quella del gregario. “Lavoravi, lavoravi, lavoravi, a volte lavoravi così tanto da dimenticarti di mangiare, e quando te ne accorgevi, era troppo tardi. E allora le cotte. Ricordo un Passo Gardena, svuotato. E l’eterno Colle San Marco, eterno, mi giravo indietro e non vedevo più nessuno”. Che vita, quella del corridore. “Giro d’Italia dilettanti, un caldo bestiale, una sete micidiale, a un passaggio a livello chiuso in cinque o sei entrammo in una casa e portammo via anche il vino fresco”. Che vita, quella sulla bicicletta. “Ci conosciamo da tanto di quel tempo che non abbiamo più segreti. Io parlo a lei e lei parla a me. A sensazioni. La bicicletta mi ha insegnato a sbagliare, a riconoscere gli errori, a imparare dagli errori fino a conoscermi e riconoscermi. E ancora adesso, nelle uscite in gruppo, i miei amici ai piedi di una salita sono tutti leoni, in cima pecorelle. E io, piano piano, con il mio passo, a uno a uno li riprendo tutti”.
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