«Non è la prima volta che il Giro passa dalle strade di casa nostra, ma questa è speciale: ha fatto vedere al mondo una zona ricca di storia». Bruno Reverberi, manager della Bardiani Csf Faizanè, non è uno qualsiasi nel ciclismo mondiale, figuriamoci a Reggio: quest’anno festeggia 40 anni di attività fra i professionisti della bici, più della metà dei suoi 78 anni, una longevità che ne fa un libero docente in un ambiente dove per simpatia e saggezza è considerato e chiamato ‘Zio’. Di corse rosa dagli anni Ottanta in qua ne ha saltate soltanto una e le ha percorse tutte con lo spirito garibaldino che ha aiutato tanti suoi ragazzi ad uscire dal guscio, ma anche a vincere le tappe: ne conta ben 31, nessuno come lui.
Reverberi, altro Giro, altro passaggio dal Reggiano: emozioni?
«Come sempre. Stavolta però non c'era solo una bella tappa da vedere, con un po’ di salita che ha creato spettacolo: nonostante il maltempo, il pubblico da casa ha potuto vedere monumenti e conoscere storie che magari non conosceva».
Di pubblico se n’è visto parecchio anche sulla strada nelle prime tappe…
«Forse anche troppo, visto il periodo che stiamo attraversando. Però avere gente sulle strade è bello, è un’altra corsa».
Quarant’anni di attività: rispetto a quando è partito, dove è migliorato il ciclismo?
«Nella tecnologia. E nell’organizzazione: una volta si andava alle corse con un furgone, quattro bici di scorta, un meccanico e un massaggiatore che finivano di sistemare bici e muscoli alle undici di sera, oggi le squadre hanno pullman, ammiraglie e staff di fisioterapisti. Di questo passo tra un po’ compreranno i massaggi già fatti…».
Dove è peggiorato?
«Con le corse meno lunghe, si vede meno qualità. Una volta c’erano tappe di 250 e passa chilometri, emergeva l’uomo forte, dotato di resistenza e recupero. Ne trovavi al massimo una decina, adesso saranno almeno cinquanta».
Come sono cambiate le corse?
«In peggio. Sono un po’ più noiose, a volte è sufficiente vedere gli ultimi cinque minuti: quando sai come va a finire, è come vedere un film che ti è stato raccontato».
Motivo?
«Quando si correva su distanze lunghe era difficile andare a riprendere le fughe: toccava alle squadre dei velocisti di grido, se ci riuscivano. Oggi invece tutti i team rincorrono, anche quelli che non hanno un uomo da piazzare nei primi dieci, così lo spettacolo si impoverisce».
Il lato bello?
«Nelle tappe miste, con un po’ di salita, c’è battaglia. Si vede dalle medie, decisamente più alte».
Trentanove Giri d’Italia: il più bello?
«Ne ricordo tanti, ne cito due. Quello in cui riuscimmo ad esser competitivi per tutto il Giro, vincendo con Guidi la maglia ciclamino (1996, ndr) e anche la classifica scalatori. E quello del 2005, quando nacque il Pro Tour, che nel ciclismo è come la Superlega che avrebbe voluto il calcio: prendemmo noi la prima maglia rosa con Brett Lancaster nel prologo, poi vincemmo la quarta tappa. Un bel bilancio per essere una delle due invitate perché non facevamo parte di quell’elite».
Di dare lezioni agli squadroni le è capitato spesso in 40 anni: il segreto?
«Per noi il Giro è come la vendemmia per un contadino: è il mese del raccolto. Se fai bene sulle strade rosa, salvi la stagione: per l’Italia è così. E’ un fatto di visibilità, ma anche di prestigio per lo sponsor: sostengono il ciclismo soprattutto per essere al Giro».
L’edizione più deludente?
«Un anno siamo arrivati a Milano con un solo corridore, Duma. Nonostante questo, siamo stati ugualmente protagonisti: quando attaccava lui, dicevo a tutti che avevamo mandato in fuga l’intera squadra».
Le squadre di Reverberi sono note per correre alla garibaldina: perchè non ha mai abbandonato questa filosofia?
«Quando non hai atleti sicuri di far classifica, conviene muoversi: se c’è da sorprendere i più forti, meglio muoversi in anticipo».
Che Giro farà la sua Bardiani Csf?
«Col solito schema: tutti all’attacco, sperando di esser presenti tutti i giorni e magari imbroccare una fuga in una tappa che conta con uno dei nostri uomini migliori. L’obiettivo è quello di sempre: vincere una tappa».
Reverberi, quattro decenni nel ciclismo sono un record: pensa che la sua terra l’abbia onorata come merita?
«Forse no, anche se pur non essendo reggiano di città (è nato a Bibbiano, ndr) mi ha fatto piacere ricevere dal sindaco Vecchi il primo tricolore. Così come il Coltellino d’oro, che il Consorzio del Parmigiano Reggiano ha attribuito a eccellenze come Pavarotti, Zucchero, Razzoli e altri personaggi famosi. Sicuramente sono stato onorato più fuori dalla nostra provincia che in casa, ma so bene che nessuno è profeta in patria».
Che fa, si lamenta?
«Assolutamente no, so di godere anche nella mia terra della giusta considerazione. Una squadra che in quarant’anni non si è mai fermata, vincendo tutti i titoli, compresi tre ori olimpici e due mondiali con i suoi atleti, è una cosa unica. Per il team che siamo, restando sempre con i piedi per terra, le nostre soddisfazioni ce le siamo tolte».