Continua a pedalare, come ha sempre fatto, come prima e più di prima, quando era a capo del movimento ciclistico italiano. Renato Di Rocco, 74 anni, romano, fino al 20 febbraio scorso presidente della Federazione Ciclistica Italiana, dopo quattro mandati aveva deciso di scendere di sella per lanciare come in un cambio all’americana una donna, Daniela Isetti, per anni sua vice. Lui si sarebbe volentieri preso anche una pausa, ma è stato sufficiente annunciare 'urbi et orbi' che si sarebbe fatto da parte, per scatenare l’interesse di diverse federazioni alla sua persona. Ecco dunque la candidatura, fortemente voluta e sostenuta soprattutto da Angelo Binaghi e Paolo Barelli, i due presidenti di tennis e nuoto, da sempre all’opposizione di Malagò, che il 13 maggio prossimo se la vedrà con Antonella Bellutti, Franco Chimenti e appunto l’ex numero uno del ciclismo italiano.
Di Rocco ci ha pensato, poi ha deciso di scendere in campo e l’ha fatto con il suo linguaggio pacato e tagliente, che non lascia spazio ad interpretazioni. «In questi anni il Coni ha abbandonato le società a sé stesse e gli operatori dello sport, che da un anno e mezzo stanno vivendo una crisi profondissima e terribile, si sono dovuti arrangiare. Non mi sembra che il Coni in questi mesi si sia fatto sentire. Che abbia mai evidenziato le ricerche scientifiche che dimostrano come palestre e piscine siano luoghi sani, dove la distanza è rispettata ben più che in autobus ed in metropolitana. E sapete perché non lo ha fatto? Perché era impegnato a chiedere al Governo più potere e più dipendenti».
Di Rocco nasce in mezzo alle biciclette. Papà Romeo (anche lui si chiama Renato Romeo), morto appena lui viene alla luce a soli 46 anni per malaria, manda avanti una bella fabbrica di biciclette sulla Tiburtina. Mamma Maddalena la perde che ha appena 8 anni, così Renato e le sue due sorelle maggiori (Giovanna e Giuliana) crescono con Alberto e Maria, gli zii, che portano avanti anche la 'Romeo Bike'. «Le nostre biciclette sono state utilizzare anche da giovani talenti che svolgevano il servizio di leva a Roma presso l’Aeronautica Militare: Adorni, Mealli, Trapè, Ursi, assicurando anche una officina specializzata dedicata alla ricerca e sviluppo del mezzo meccanico messa a disposizione per le nazionali minori che all’epoca erano guidate dai leggendari ct Elio Rimedio (strada) e Guido Costa (pista) racconta Di Rocco.
Ma ha anche praticato il ciclismo?
«Ho corso dai dieci anni ai quattordici anni sull’anello del velodromo olimpico, poi mi sono dedicato agli studi e all’azienda di famiglia, dove ho fatto anche il rappresentante di zona per marchi importanti come la Chiorda, la bicicletta del Tour de France di Felice Gimondi. Poi dopo le medie e il diploma in ragioneria, lo zio Alberto ha fatto di tutto perché io frequentassi la scuola dello Sport».
Quando è iniziata la sua avventura da dirigente?
«Cinquant’anni fa. Nel ’71 sono entrato nella Federazione Ciclistica Italiana come tecnico della compagnia atleti di Milano in viale Suzzani. Da lì in poi ho anche iniziato ad occuparmi della attività giovanile fino al ’75, anno in cui l’allora presidentissimo Adriano Rodoni, mi volle come segretario aggiunto dell’UCIP (Unione Ciclismo Italiano Professionistico, ndr), ruolo che ricoprì fino all’80. Nell’81, per volere del neo-presidente Agostino Omini, andai ad occupare la carica di Segretario Generale della Federciclismo, ruolo che ho ricoperto fino all’avvento del presidente Gian Carlo Ceruti, avvenuto nel 1997».
Poi il suo rientro al Coni.
«Infatti, esco per qualche anno dalla Federciclismo e torno al Coni come direttore della Promozione sportiva (Ufficio 'Giochi della Gioventù' e rapporti con il Ministero della Pubblica Istruzione). Poi due anni Segretario Generale della FIDAL (atletica leggera, dal ’99 al 2001) con la presidenza del generale Gianni Gola e, infine, sotto la presidenza di Gianni Petrucci torno al Coni come direttore generale. È in quel periodo che mi arrivano tante sollecitazioni dal mondo delle due ruote affinché mi candidi alla presidenza federale. Tra i più attivi e convinti Silvio Martinello: decisi di mettermi in gioco e diventai presidente della Federazione».
Verrà annoverato anche come il primo presidente attento alle quote rosa.
«Oltre ad aver fatto di tutto per facilitare l’elezione della Isetti e, purtroppo, quella che io avrei visto davvero come la chiusura del cerchio, mi fa piacere ricordare che nel 2005, al primo consiglio federale, sedevano quattro donne e io nominai come Segretario Generale una donna bravissima e competente come Maria Cristina Gabriotti. Insomma, in materia di valorizzazione delle donne eravamo già avanti mi pare...».
Uno dei suoi mantra è: tornare alla normalità. Cosa intende per normalità?
C«’è troppa conflittualità con le istituzioni, in un momento così delicato è necessario dialogare. Inizialmente non immaginavo di avventurarmi in questa gara così difficile, poi ho respirato il senso di disagio e malcontento diffuso, specie all’interno del palazzo nel quale sono cresciuto come dirigente. È sotto gli occhi di tutti quel che sta succedendo. Ogni Federazione, se voleva ripartire in questo periodo estremamente grave e complicato ha dovuto fare da sola. Ha dovuto trovare una propria strada, per riprendere l’attività. Lo sport italiano è stato lasciato solo da chi aveva il dovere invece di coordinare uno stato di emergenza: è mancata una cabina di regia. Il calcio c’è riuscito, il ciclismo anche. Ma ancora oggi ci sono palestre, piscine e palazzetti di basket e pallavolo che devono fare da soli per avere un dialogo con il Comitato Tecnico Scientifico».
Se sarà eletto cosa promette?
«Dialogo con le istituzioni governative e abbattimento della conflittualità con gli enti di promozione sportiva. Dovremo poi lavorare sodo anche per dare una nuova giustizia sportiva, unitamente ad una nuova forma organizzativa e territoriale del Coni».
Lei è stato molto duro nei confronti di Malagò, per il clima e i toni adottati in questa campagna elettorale: ha parlato di stato di polizia. Non le sembra un po’ esagerato?
«Il suo 'circo magico' muove e controlla tutto. E non è un caso che almeno 6 federazioni hanno eletto un presidente che non era il candidato di Malagò».
Com’è il suo rapporto con Antonella Bellutti, altra candidata alla presidenza Coni?
«Siamo su fronti diversi, ma con Antonella c’è un bellissimo dialogo. È una donna molto in gamba, solida e preparata. Io le porto da sempre grande rispetto».
Dopo quattro mandati alla Federciclismo, cosa prova a non avere l’appoggio del nuovo presidente federale Cordiano Dagnoni?
«È chiaro che mi spiace, ma mi conforta l’affetto che respiro ogni giorno dal mondo del ciclismo. Sono stato accusato di non aver detto quali erano le mie intenzioni, ma non è assolutamente vero. Dagnoni io l’ho avvertito a voce direttamente nel suo ufficio il 24 marzo scorso e ho mandato una mail a lui e a tutto il consiglio Federale il 31, la sera prima di candidarmi ufficialmente. Pensi che ad oggi non ho ricevuto nemmeno una risposta».
Si è mai pentito di aver invitato Daniela Isetti - una volta uscita dal ballottaggio - a far confluire parte dei voti su Cordiano Dagnoni nella sfida finale con Silvio Martinello?
«Guardi, mi è spiaciuto soprattutto che non sia stato riconosciuto il merito di Daniela e il suo gesto, non dico di sacrificio, ma di grande responsabilità».
Come si sente a pochi giorni dalla grande sfida: è una partita ancora aperta o il risultato è già scritto?
«La partita è apertissima e la candidatura in extremis di Chimenti è li a testimoniarlo. Se Malagò fosse così sicuro, non avrebbe chiesto l’aiutino da casa. La differenza non è così ampia come vogliono far credere».