Amava la velocità. In bici, in macchina. Amava il rischio. In pista, al tavolo. Amava la competizione: il ciclismo, il gioco. Amava l’azzardo: la volata, il casinò.
Gli amici lo chiamavano, con tutto l’affetto che si possa immaginare e con tutta l’invidia che si possa provare, “el noster bauscia”. Bauscia, in milanese, significa bava, saliva, ma bauscia indica anche chi produce bava, saliva, vantandosi e tirandosela, cioè lo spaccone, il fanfarone. Ma lui, Antonio Maspes, se lo poteva permettere: sette volte campione del mondo nella velocità su pista. Un monarca. Il monarca.
Stefano Piva ha scritto la prima biografia di Maspes: “Il re del Vigorelli” (Bolis Edizioni, 128 pagine, 16 euro, con la prefazione di Domenico De Lillo). Una vita favolosa. Quando a 12 anni entrò per la prima volta in quella che “i vecchi della parrocchia” paragonavano alla Scala del ciclismo. Quando a 14 anni assemblò una moto Orion acquistando i pezzi mancanti al mercato delle pulci. Quando a 15 anni falsificò la carta d’identità, un anno in più per poter partecipare, e vincere, i campionati italiani allievi. Quando a 15 anni incontrò per la prima volta Fausto Coppi e osò chiedergli – “signor Coppi” - un autografo e Coppi gli impose di dargli del tu. Quando a 17 anni abbordò una ragazza in bicicletta, chiedendole dove andasse con un “cancello” così, e quella ragazza sarebbe diventata sua moglie.
E poi tutte le sue battaglie, di gambe e di cervello, di muscoli e di fosforo, di potenza e di strategia, di provocazioni e di intimidazioni. Da monarca e da bauscia. Due volte campione italiano tra gli allievi, una volta tra i dilettanti, undici volte tra i professionisti, come dire che per 20 anni è stato il numero 1 in un’epoca in cui la velocità era un regno italiano. Acclamato a Parigi e a Copenaghen, a Zurigo e ad Amsterdam. Come un tenore dell’opera, come una rock star, come un divo del cinema. E lo era: spettacolare, teatrale, romanzesco anche quando si spegnevano le luci dei velodromi e si accendevano quelle delle bische. Maspes continuava a giocare, ma qui perdeva, perdeva il senso del tempo e della misura, perdeva montagne di soldi. E s’inguaiò.
Il 19 settembre 2000 telefonai a Maspes e a Sante Gaiardoni per invitarli in via Solferino, nella redazione della “Gazzetta dello Sport”. Maspes aveva 68 anni, Gaiardoni (Maspes lo chiamava, come facevano solo gli amici, Gianni) 61. Si presentarono in tuta. Date le dimensioni da ex-moltoex-velocisti, era l’unico abbigliamento possibile. Quando li presentai agli altri redattori, avvertii imbarazzo e stupore. Ma quando “il Tugnela” e “il Gianni” cominciarono a raccontare le loro avventure, i loro trucchi, le loro imprese, conquistarono la platea da consumati attori di avanspettacolo. E quando ai due eroi si unì Candido Cannavò – il direttore, appena poteva, si liberava da impegni ufficiali e respirava aria di sport -, fu autentico cabaret. Botte e risposte, battute e battutacce.
Invece Piva è molto asciutto, ossequioso, rispettoso, ufficiale nel ripercorrere le vicende sportive, personali e anche giudiziarie del “sette volte campione”, come recita il sottotitolo. Poco si affida alle testimonianze di chi lo aveva visto e vissuto da vicino. Ma tutto questo rimane un patrimonio da scavare e scoprire per un altro libro che potrà basarsi proprio su queste solide fondamenta. E che potrà ricreare quell’atmosfera fumosa, canforata, dialettale, popolare, sberluccicante, malandrina eppure perfino poetica che era la velocità, la pista, la Scala – il Vigorelli – del ciclismo su pista. Un codice trasformato, un ambiente irripetibile, un mondo perduto.