Il primo evento che organizzò, a neppure 17 anni, inserito in un comitato guidato dall’Arcivescovato ambrosiano, non fu ciclistico, ma religioso: la festa per lo scoprimento della Madonnina sul Duomo di Milano. Fino a quel giorno, il 6 maggio 1945, la “mia bela Madunina” era stata coperta con un telo perché non diventasse un bersaglio dei bombardamenti aerei. Neppure il secondo evento che organizzò sette mesi più tardi fu ciclistico, ma almeno era sportivo: il Palio di Sant’Ambrogio, corsa podistica per le strade di Milano. Poi, finalmente, si dedicò alla bicicletta. E al Giro d’Italia.
Domani saranno 25 anni dalla morte di Vincenzo Torriani. Torriani sta al Giro come Gianni Brera al giornalismo sportivo e Sergio Zavoli a quello televisivo. Non a caso, Brera e Zavoli erano suoi amici. E sta come Jacques Goddet al Tour. Non l’inventore, non il pioniere, ma il patron, anzi, il Patron, con la maiuscola. Nel caso di Torriani, Patron padre e padrone, autorevole e autoritario, geniale nelle sue intuizioni e tirannico nelle sue scelte, un generale che non comandava le truppe da una tenda o una caserma, ma che scendeva in campo, saliva sul cavallo (l’ammiraglia), sfoderava la sciabola o impugnava il fucile, e battagliava.
Torriani è quello che in tre settimane di Corsa Rosa perdeva, tappa dopo tappa, la voce fino a ridurla a un rantolo. E’ quello che sull’ammiraglia emergeva dalla cintola in su, ma è anche quello che sempre sull’ammiraglia, lontano dai collegamenti tv, finalmente si sedeva e si addormentava. E’ quello che per il Giro della rinascita, nel 1946, fu probabilmente il primo italiano a ripercorrere l’Italia, in avanscoperta alla corsa, su una Fiat Balilla, tra macerie e rovine, aggirando ponti bombardati ed esplorando strade distrutte, incontrando contadini che pensavano che la guerra non fosse ancora finita. E’ quello che minacciava gli scioperanti e che inveiva contro i contestatori, quello che inventò una cronometro in discesa (Sanremo) e una cronometro sui canali (Venezia), quello che si avventurò sullo Stelvio e poi sul Gavia, quello che concepì la Granfondo d’Italia da Milano a Roma pedalando anche di notte.
Non aveva un carattere docile. Focoso, vulcanico, esplosivo, era temutissimo. I dipendenti giravano al largo. I corridori pure. La loro unica vendetta si consumava negli assalti a bar, osterie, alimentari: si avventavano sugli scaffali, svuotavano i frigoriferi, si tuffavano nelle cantine riemergendo con tutto quello che c’era da mangiare, bere e rubare, e ai padroni disperati elemosinavano una cambiale orale - “paga Torriani” – che non risulta sia mai stata onorata.
Mario Fossati scrisse che “il tempo è una convenzione”, bastava mettere insieme “venti centenari che si danno la mano e sottrarre i loro complessivi duemila anni” per tornare a Gesù, alla capanna di Betlemme, al bue e all’asinello. Uno dei centenari era proprio Torriani. Fra gli altri, Bartali e Magni. Nessuno di loro ha toccato quota 100. Ma c’è da considerare che ciascuna delle loro vite si era moltiplicata e valeva quattro o cinque delle nostre.
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