Non è mai arrivato primo al Giro d’Italia, eppure ne ha vinti due con Gimondi. Non è mai arrivato primo neanche alla Vuelta, eppure ne ha vinta una sempre con Gimondi. Non ha mai conquistato medaglie ai Mondiali, eppure è salito sul podio per l’oro di Gimondi, gli argenti di Gimondi e Moser e il bronzo di Conti. Non ha cariche istituzionali nel ciclismo, ma se esistesse un parlamento dei corridori, sarebbe un senatore a vita. E non ha mai scritto un libro sul ciclismo, ma potrebbe correggerli tutti.
Oggi Roberto Poggiali compie ottant’anni. Uno di quei rari campioni (campione italiano dilettanti nel 1962) che ha scelto di esserlo fra i gregari. E se il gregario è un soldato semplice, lui si è guadagnato sulla strada i gradi di caporale e sergente, luogotenente e infine colonnello. E’ proprio la strada a rivelare la gerarchia: i fanti entrano immediatamente in azione per le prime scaramucce, i geni solo quando il gioco si fa duro. Così lui, con il tempo, veniva risparmiato nelle prime battaglie campali per essere pronto ad agire nel grande finale strategico. Le corse erano mari in cui pedalare a vista, soggetti a improvvise burrasche, onde gigantesche, squali assassini, corsari spietati, tradimenti imprevedibili. Me lo immagino, Poggiali, come un nocchiere in livrea dotato di cannocchiale, mappe e megafono, eventualmente anche stiletto e archibugio.
Professionista dal 1963 al 1978: una vita. Una vita dall’incandescente Taccone all’esuberante Zandegù, dal folle Venturelli al galantuomo Zilioli, dal gambasecca Massignan al talentuoso Motta, ma anche dal sanguigno Partesotti al silenzioso Minieri, dal poderoso Gualazzini al sorridente Gatta, dall’inesauribile Mugnaini all’umano Guadrini, tra una borraccia a Balmamion e una spinta a Basso, uno scherzo con Altig e una chiacchierata con Ferretti, un occhiolino a Bitossi e un caffettino con Laghi. Poggiali faceva tutto: attore e comparsa, sceneggiatore e regista, specialista delle luci e addetto al catering. Cominciava a lavorare ben prima della partenza e finiva ben dopo l’arrivo. Si era perfezionato in quell’indispensabile corsa fatta di intese e favori, alleanze e complicità, equilibri ed equilibrismi, anticipi e riconoscimenti, che spesso spianavano anche certe salite dure da morire. Gimondi (dal 1967 al 1972) e Moser (dal 1974 al 1977) sapevano di avere, con lui, un conto in banca. E in giornate di libertà “Robertino”, fiorentino di Bellariva, elegante e diplomatico, ma anche tosto e ispirato, pedalava rotondo e si guadagnava perfino vittorie. Una decina. Con tanto di classiche autentiche (Freccia Vallone 1965) e classifiche generali (Giro di Svizzera 1970).
Ma se dovessi citare un episodio, allora questo, che dipinge un’intera epoca. Me lo ha raccontato lui per un mio libro, “Elogio del gregario” (Battaglia Edizioni, in uscita ai primi di maggio), che ho dedicato alla bassa e alta manovalanza del ciclismo. Premessa: Poggiali ha i suoi diari di corsa. Un diario l’anno. Lì c’è tutto: data, corsa, risultato e qualche nota di colore. Da quella data (4 agosto 1975), da quella corsa (Grand Prix Chistr'Per-Souvenir Daniel Le Breton), da quelle note (partenza: Clégueréc; arrivo: Clégueréc; chilometri: 130), ecco la storia (i soldi – sia chiaro – in lire). “Dopo il Tour, le riunioni. Moser, due vittorie, sei giorni in maglia gialla e maglia bianca finale, venne ingaggiato per una dozzina di kermesse. Lui, un milione a corsa, Ole Ritter, primatista dell’ora, a mezzo milione. E io a casa, al mare, in Versilia. Telefonata di Francesco: dove sei?, a Forte dei Marmi, che fai?, prendo il sole, vieni qui, no grazie, Ole deve tornare a casa. Accettai, ma a malincuiore, tanto più che avrei preso la metà di Ritter e le spese – auto dal mare a Firenze, aereo da Firenze a Parigi, taxi dal Charles de Gaulle alla Gare de Lyon, treno fino a Tours – erano a mio carico. Tutto bene finché il treno investì una mietitrice e deragliò. Risultato: arrivai così in ritardo che Jean-Pierre Danguillaume, da cui sarei stato ospite a Tours, era già ripartito. E la bici era rimasta sul vagone-merci. A casa di Danguillaume recuperai una bici da turismo con le leve doppie dei freni, tolsi i parafanghi, cambiai il manubrio e mi presentai a questi circuiti degli assi. Una sera mi lamentai: non guadagnavo un franco, tanto più che dividevo le spese con Moser che prendeva quattro volte più di me, e faceva un caldo boia. Moser s’illuminò: e tu di’ che sei Ritter. Assomigliarci, no, non ci si assomigliavamo, però non eravamo neanche così diversi. A Clégueréc, in Bretagna, mi presentai con la stessa maglia della Filotex, il cappellino calcato sulla fronte e gli occhiali da sole. Pronti, via, corsa. Tutto bene finché ai bordi della strada un ragazzino, che teneva in mano un album con le foto dei corridori, urlò che non ero Ritter. Per zittire il ragazzino, il giro successivo gli allungai il cappellino. Ma lui insisteva: non è Ritter! Per comprarlo, il giro successivo gli lanciai la borraccia. Niente da fare, lui ripeteva: non è Ritter! All’arrivo gli organizzatori mi bloccarono, mi portarono in una stanza e mi smascherarono. Inventai difese, scuse, giustificazioni. Rischiai multa, denuncia, forse anche prigione. Invece fui perdonato. Ma con l’ingaggio dimezzato: non alla Ritter, ma alla Poggiali”.
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