Era il 2016. Malika, Frozan, Zahra e Zhala in bici. Rukhsar Habibzai in macchina. Loro, le sole, le uniche donne afghane in bici. Lui, il loro custode e allenatore. Loro, la nazionale di ciclismo femminile dell’Afghanistan. Lui, il commissario tecnico. Loro e lui, in missione. Perché in Afghanistan, e non solo, le donne non possono, non devono andare in bici. Scandalo, trasgressione, peccato. Una provocazione religiosa, politica, sessuale. Poi l’appello di Fazli Ahmad, presidente della Federazione ciclistica afghana, la donazione di Shannon Galpin, giornalista statunitense, l’aiuto della Federazione ciclistica italiana, perfino la candidatura al Premio Nobel per la pace proposta da 118 parlamentari italiani e la campagna “Bike the Nobel” lanciata dal programma radiofonico “Caterpillar”.
Comincia qui “Fiori di Kabul” (Einaudi Ragazzi, 160 pagine, 12 euro). Gabriele Clima romanza la storia di Maryam. A sei anni ricevette, come regalo, una bicicletta bianca e azzurra, con i lustrini sul manubrio e sulla canna, che apparteneva allo zio quando era piccolo e che la mamma aveva pulito e rimesso a posto, ma che il papà, integralista, aveva immediatamente sequestrato. E quella bicicletta fu quasi dimenticata.
“Io intanto mi chiedevo che cosa interessasse a Dio se andavo in bicicletta oppure no”.
Finché a nove anni Maryam vide un’altra bicicletta, nera e blu, che apparteneva a una ragazza straniera e che scendeva le colline, le strade, le montagne, e con cui Maryam fece addirittura un giro, in tondo, seguendo il ritmo dei pedali. Ma quella bicicletta sparì, come un’astronave.
“Andai a dormire con una sensazione strana, come di aver messo un piede sulla luna o in un posto talmente lontano e irraggiungibile da essere inimmaginabile”.
Finché a dodici anni Maryam seppe, da Samira, la sua amica del cuore, che proprio a Kabul esisteva una squadra di ciclismo femminile. Le due ragazzine si organizzarono e scoprirono, in un cortile, in uno scantinato, dietro una porta, due bici appoggiate alla parete: nuove, da corsa, bianche e blu.
“La cosa sorprendente era che correre mi veniva naturale. Come se l’avessi sempre fatto. Il coach diceva che sembravo nata per la bicicletta, che non aveva mai visto una ragazza con così tanta forza”. “Lui diceva ‘no, non è la forza fisica, è la forza d’animo, è quella forza che ti permette di fare tutto quello che ti metti in testa’”.
Da quel momento Maryam e Samira scoprirono anche se stesse e il mondo. Un altro modo di stare al mondo. Inseguendo, sconfinando, esplorando. Trasformandosi in polvere e in nuvole. Sfidandosi, rivelandosi, diventando. Fino a scontrarsi con pregiudizi e preconcetti, regole e tradizioni. E Maryam andrà finalmente in fuga. Per cercare e trovare la sua libertà.
“Dipendeva soltanto dalla via che avrei scelto di seguire. E ce n’erano tante, così tante, da percorrere. Presi un respiro, poggiai il piede sul pedale. E mi misi in strada”.
“Fiori di Kabul” è una lettura leggera e profonda, una polvere emozionante e commovente, una nuvola umana e stradale.
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