Tornò a casa. Chiamò il nonno. Poi prese la canna da pesca, gli ami e il portavermi, saltò sulla bici e si lanciò verso il fiume. Come se fosse una corsa, una gara, una sfida. Alla cieca. L’impatto con una macchina fu inevitabile. E lui volò. E poi atterrò.
Aveva nove anni. E come tutti (o quasi) i bambini di quell’età godeva di una sorta di immunità fisica (o divina). Contusioni, abrasioni, ferite. Un dito aperto. E una gran botta alla testa. Ma sano e salvo. Gli era andata bene. Forse perché istintivamente era riuscito a proteggersi.
Poi, però. “C’era una bicicletta gialla che tagliava il cielo e sentii la gente ammutolire. Era arrivato lui. Mio nonno. La bici gialla era la sua. Aveva visto da lontano il mio corpo steso in strada. Si era scapicollato e grifando come un pazzo, lui che era un omone enorme, un gigante alto quasi due metri, i lineamenti del viso che sembravano scolpiti con l’accetta, le mani più grandi che possiate immaginare e un nasone che farebbe impallidire quello del Cyrano, aveva scagliato la sua bici lontano per la rabbia”.
Vanni Oddera racconta quel volo a lieto fine in “Il grande salto” (Ponte alle Grazie, 176 pagine, 14 euro). I salti si riferiscono alle sue acrobazie nel motocross, freestyle, acrobatico ma anche terapeutico. Però quel primo grande salto, sempre a due ruote però muscolari, come raccontato nell’autobiografia del 2017, fu un anticipo, un’anteprima, un presagio.
La scena da drammatica si trasformò in comica. “Arrivò anche mia madre che per la fretta e l’agitazione dimenticò di inserire il freno a mano e vide la sua macchina scivolare nel fosso oltre la curva”. E non è finita. Quel mattino, per l’eccitazione e la fretta, il piccolo Vanni si era dimenticato di mettersi le mutande. Lui arrossì per la vergogna. E le infermiere scoppiarono a ridere.
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