Attenzione, questa è a suo modo quasi una confessione, e non dica l’eventuale lettore di non essere stato tempestivamente avvertito. Mi chiedo ogni tanto quale è l’ultima novità - meglio se positiva, si capisce - dello sport che amo di più e al quale più debbo, cioè il ciclismo (il caso del Torino Calcio è a sé, direi che non riguarda neppure il mondo del pallone e persino dello sport tutto e e le sue costantemente ricorrenti miserie), e mi fornisco risposte assortite. Ora riguardano l’evoluzione tecnica delle biciclette, specie per via di leghe nuove impiegate nella costruzione del mezzo, ora riguardano la chimica persistente troppo spesso detta anche doping, ora riguardano le nuove nazionalità che si presentano (o ripresentano, si pensi all’Australia) sulla scena, ora riguardano i nuovi teatri di gara.
Nel 2020 poi c’è stata la colossale tremenda novità del virus, della pandemia, direi superata o comunque affrontata dal ciclismo meglio che da quasi tutti gli altri sport, sia pure con accorgimenti e sacrifici pesanti: a suo modo ho dato al problema un contributo personale assai pesante, visto che il covid mi ha aggredito, invaso e minacciato per quasi un mese di ricoveri (cinque centri diversi), con rischio forte di vita e soluzione positiva davvero all’ultima goccia di cortisone.
Comunque non è della mia odissea che voglio e posso parlare, è invece di un particolare strettamente visivo che mi ha colpito. Ancora qualche riga e ci siamo. Ho detto di nuove nazionalità in arrivo, comprensive si capisce di nuove etnie (e viceversa). Mi sono ricordato che, quando scrivere di ciclismo era il mio pane quotidiano, mi ancoravo spesso ad altri sport a me cari, su tutti nuoto e atletica, e chiedevo appunto per iscritto cosa sarebbe accaduto quando sulle biciclette fossero saliti certi mostri di potenza e agilità insieme, originati magari in altre discipline. In parte ci siamo, e i prossimi arrivi intensificheranno un trend che vede i ciclisti sempre meno scorfani, pulci dei Pirenei, gattacci delle volate o nanetti delle salite.
Ma intanto è arrivato sulle scene un ciclista nuovo, impensabile sino a poco tempo fa. E attenzione: non parlo del ciclista tatuato, troppo facile. Parlo del ciclista barbuto. Ricordo quando il pelo, anche il pelino più infimo sulla pelle del ciclista, era un attentato alla sua salute, al suo benessere. Pelino che comunque significava polvere trattenuta, problema di rimarginazione delle ferite, di sparizione dei graffi, dei rossori anche minimi, pelino che veniva portato via dal rasoio del massaggiatore. Pelino brutto e cattivo che stazionava anche sui volti. E un pedalatore svizzero persino forte, Freuler, con i suoi baffoni faceva colpo ed anche un po’ scandalo.
Adesso ci sono ciclisti decisamente barbuti, e non mi riferisco soltanto al pizzetto di un Alaphilippe. Ciclisti di ogni nazionalità, in ossequio a quella che ormai è una moda spesso perentoria fra i maschietti. Non si tratta obiettivamente di una grande novità, da qualsiasi punto di vista la si consideri, però, ecco, il ciclista in una congrega di atleti può essere confuso con un praticante altri sport (persino con un Tamberi dell’atletica, se si rade soltanto la metà sinistra o la metà destra del viso).
Non si tratta di novità destinata ad avere ripercussioni sulla valenza tecnica e atletica di uno sport, ma siccome ormai il campione è un manichino pubblicitario, va da sé che anche la barba “gioca” la sua parte sulle fattezze di un uomo-sandwich, sul personaggio nel suo insieme. Per sollevarci dal troppo futile proponiamo adesso, e seriamente, il lancio di un concorso internazionale per trovare il soprannome univoco, universale, di facile dizione in ogni lingua del mondo, al ciclista che, annunciato come il grande campione prossimo venturo e fermato da una frattura al bacino, dovrebbe improntare di sé le prossime stagioni agonistiche. Diciamo dell’impronunciabile belga Remco Evenepoel, c’è qualcuno che ha l’idea buona?
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