Roberto Poggiali, 16 anni da professionista, 14 Giri d’Italia dalla partenza all’arrivo, più tutto il resto. Lo chiamo per una chiacchierata ciclistica. Restiamo attaccati al telefono 14 minuti per salutarci e aggiornarci, poi 106 minuti per raccogliere un po’ dei suoi racconti, totale due ore. E non finisce qui: tra letture e correzioni, controlli e verifiche, allungheremo i nostri dialoghi. Ma così, a occhio, un bel po’ di quelle narrazioni a due ruote e quattro mani rischia di rimanere orale. E allora le scrivo qui. A futura memoria.
DILETTANTE “Più giovane. Leggerino, acerbo. Solo tre o quattro anni meno, ma già di un’altra generazione rispetto a certi colleghi, come Trapè o Bailetti, tanto che mi vergognavo a spogliarmi e cambiarmi davanti a loro”.
CAMPIONE “Campione italiano dilettanti. Nel 1962. Tre prove: secondo nella prima, quarto nella seconda, alla terza mi bastava piazzarmi, invece andai in fuga con Marcello Mugnaini, e glielo dissi, mi basta arrivare in fondo. Risultato: lui primo, io secondo e maglia tricolore”.
GREGARIO “Luciano Pezzi per la Salvarani, Giorgio Albani per la Molteni e Valdemaro Bartolozzi per la Filotex. Non una santa alleanza, ma un laico accordo: non facciamoci la guerra per i gregari, si possono ingaggiare solo quelli lasciati liberi”.
SPINTE “La tv si collegava, sì e no, gli ultimi 20 chilometri. Tutto il resto era libero, e liberamente i gregari spingevano i capitani. A forza di spingere, la sera le gambe erano di legno, e a volte di marmo”.
FAVORI “Era un dare per avere. Prima o poi arrivava l’occasione per chiedere che certi favori venissero restituiti. Senza dover tirare fuori dei quattrini. Era gratitudine, riconoscenza, rispetto”.
PASSAGGIO “Milano-Torino, non mi ricordo più se quella del 1974 o del 1975. Partenza dallo stadio di San Siro, sotto la pioggia, in mezzo a una manifestazione di protesta. Vincenzo Torriani tenne lontane e nascoste le ammiraglie per paura che venissero bloccate e dette il via. Ma io forai prima ancora di partire. Non sapevo più che cosa fare. Dopo un paio di minuti – pensavo addirittura di tornare in albergo, l’Andreola, vicino alla Stazione Centrale – arrivarono le ammiraglie. Valdemaro!, urlai. Che ci fai qui?, e inchiodò, salta su!, mi ordinò, con la bici sul tetto. Fu un’avventura, il traffico era aperto, finalmente la corsa si ricompose e dopo un centinaio di chilometri Bartolozzi mi disse di scendere. E poi?, gli domandai. E poi vai all’arrivo, mi spiegò. E così fu. Ripresi la bici, raggiunsi il gruppo e, per decenza, ci rimasi fino al Motovelodromo”.