Nel 2021 sarà Intermarché Wanty Gobert e sbarcherà nel World Tour. A difenderne i colori ci sarà anche Simone Petilli, che a 27 anni ha voglia di cambiare marcia e cominciare a raccogliere i frutti di una prima parte di carriera vissuta al servizio degli altri e non troppo fortunata dal punto di vista dei guai fisici. Il nativo di Bellano, con la consueta disponibilità e allegria, ha fatto il punto con tuttobiciweb di quello che è stato e quel che sarà. Intanto, la formazione belga è stata una delle poche a riuscire ad organizzare i primi incontri dal vivo con i corridori, divisi in macro-gruppi, che si sono incontrati la scorsa settimana a Gent per porre le basi in vista della nuova stagione.
Che ricordi ti lascerà questo 2020?
«Non sono soddisfatto della mia stagione sinceramente. Quando ho scelto di venire in questa squadra avevo altre intenzioni, ma un po' per colpa mia e un po' per la pandemia non sono riuscito a fare quello che avrei voluto. Avevo scelto la Wanty per avere un po' più di libertà, ma non sono riuscita a sfruttarla».
Dove pensi di aver sbagliato?
«Ragionando a mente fredda credo di aver commesso qualche errore di preparazione. Prima del lockdown mi sembrava di stare bene, ma non ho avuto modo dimostrarlo. Poi durante il periodo di stop ho lavorato intensamente, forse troppo, tanto che quando sono tornato ad allenarmi su strada ero già in buonissima condizione. Negli allenamenti di giugno e luglio avevo ottimi valori e sono arrivato pronto al primo blocco di corse francesi, con Tour de l'Ain, Mont Ventoux Challenge e Route d'Occitanie racchiuse in nove giorni. Da quel momento però la condizione è andata in calando, proprio nel momento in cui invece mi aspettavo uno step in avanti, il che vuol dire che qualcosa nell'avvicinamento alla stagione l'ho sbagliato. Purtroppo, avrei avuto bisogno di un periodo di stacco per recuperare, ma con un calendario così congestionato era impossibile e la forma è scesa sempre più».
L’ambientamento con il team invece come è andato?
«Quello è il lato positivo della stagione. Mi sono integrato molto bene, ho legato coi compagni e l'atmosfera in gara è stata molto piacevole. Se dal punto di vista sportivo le cose non vanno bene, come successo a me, avere le persone giuste intorno ti aiuta molto a superare al meglio il momento. Poi spesso ero in camera con Andrea Pasqualon quindi parlavo italiano tranquillamente, sennò inglese con gli altri ragazzi come Christian Odd Eiking o Loic Vliegen».
Adesso arriva anche Lorenzo Rota…
«Sì, l'ho già incontrato la scorsa settimana in Belgio, ci hanno messo subito in camera assieme. Sono contento arrivi anche lui a rafforzare la pattuglia italiana. Tra l'altro con lui avevo già corso nel 2015 con la Unieuro quindi ci conosciamo già bene. In ogni caso ci tengo ad aprire i miei orizzonti e migliorare il mio inglese, quindi continuerò a dare molta importanza alla relazione con i miei compagni stranieri. Mi rendo conto che tra italiani tendiamo a rimanere nella nostra cerchia e parlare solamente italiano, e infatti poi siamo tra quelli che fanno più fatica ad imparare l'inglese. Personalmente vorrei provare ad internazionalizzarmi il più possibile».
Ti hanno affidato un ruolo preciso in squadra?
«Dipende da me. La squadra ha piena fiducia nei miei mezzi. Se darò riscontri positivi mi daranno il mio spazio, come d'altronde hanno già fatto, altrimenti sarò io a mettermi a disposizione. Proprio per questo voglio riuscire a dare il meglio di me stesso».
E visto che sarete nel World Tour la qualità del calendario si alzerà notevolmente.
«Lo abbiamo scoperto alla Freccia Vallone, ed è stato abbastanza sorprendente perché non ne avevamo la minima idea. Questo ci dà molte più garanzie in termini di calendario e la pianificazione sarà senz'altro più agevole».
Visto che potrete fare tutte le corse più importanti, ne hai qualcuna a cui non vorresti mancare?
«Quando ho firmato per la Wanty avevo la ferma intenzione di guadagnarmi una convocazione per il Tour de France, l'unico Grande Giro che mi manca dopo aver corso due Giri e una Vuelta. Quest'anno però non ci hanno invitato e così è dal 2018 che non corro un Grande Giro. Spero quindi di tornare al Giro d'Italia, la corsa in cui finora ho fatto le cose migliori da professionista. Vorrei ripartire da lì».
Anche perché potresti avere una libertà che in un Grande Giro non hai mai avuto.
«La squadra ha comunque cercato di rinforzarsi per le corse di tre settimane, visto che comunque le correremo tutte e tre. Sono arrivati ottimi scalatori come Jan Hirt e Louis Meintjes, che conosco bene avendoci corso due anni in UAE. È un corridore di talento, che ha fatto due Top 10 al Tour de France, e ha tanta voglia di riscatto dopo un periodo non facile. Però sicuramente avrò i miei spazi per provare ad andare a caccia di un buon risultato e, nel caso ce ne fosse bisogno, sarò pronto a mettermi a disposizione dei miei compagni. I calendari precisi, però, ancora non li sappiamo».
Immagino che il tuo grande obiettivo rimanga però la prima vittoria da professionista…
«Sicuramente sì. Lo era già quest'anno e non ci sono riuscito, lo sarà ancor di più l'anno prossimo. Non importa in quale corsa, ma devo riuscire ad alzare le braccia al cielo. Penso che potrebbe aiutarmi anche dal punto di vista mentale. Non è facile perché non sono un corridore veloce e ho un determinato tipo di caratteristiche, ma ci devo riuscire».
Dove ti vedresti meglio a braccia alzate?
«Per le mie caratteristiche la soluzione più "agevole" per vincere sarebbe quella di indovinare la giusta fuga da lontano in un Grande Giro. Altrimenti in qualche corsa minore, cercando di cogliere il momento giusto. L'importante sarà arrivare pronti e sfruttare le chances».
Ormai sono cinque anni che sei professionista ed è tempo di un primo bilancio. Il momento più bello e quello più brutto che hai vissuto finora?
«Sembra ieri che sono passato professionista ma in effetti sono già passati 5 anni. Il primo biennio è andato abbastanza bene, il 2017 lo reputo l'anno migliore da quando sono passato coi grandi, con una prestazione solida al Giro d'Italia. Poi quello stesso anno sono caduto a Il Lombardia, nella discesa dopo il Muro di Sormano, e mi sono rotto tre vertebre, clavicola, scapola e osso occipitale, insomma un po' tutto. Sono rimasto fuori quasi sette mesi e quando sono tornato non sono più riuscito a trovare continuità, alternando prestazioni positive ad altre negative».
Insomma, il vero Simone Petilli dobbiamo ancora vederlo?
«Spero proprio di sì. Conto di dimostrare il valore che sento dentro al più presto. Ovviamente dovrò dare risposte sulla strada, perché un conto sono le parole e un conto i fatti».
Hai notato un cambiamento nel ciclismo in questi cinque anni?
«Sì, è mutato rispetto al 2016 quando sono passato tra i professionisti ed è in continua evoluzione. Già al tempo i corridori più esperti mi dicevano che c'era stata un'evoluzione del ciclismo e io stesso posso dire che in appena 5 anni sono cambiate molte cose, in particolare nell’approccio dei neoprofessionisti. Si affacciano già con ambizioni importanti, hanno una mentalità diversa rispetto al passato e secondo me è giusto così. Poi ovviamente ci sono alcuni fenomeni che non fanno testo, ma in linea generale non vogliono perdere tempo e fin dai primi anni vanno a caccia di risultati importanti. Hanno poca esperienza ma grande voglia e grandi gambe».
E anche la presenza massiccia di squadre Continental, di cui tu ne avevi già colto le potenzialità, visto che hai corso con Area Zero e Unieuro prima di passare professionista.
«Sì, sono fondamentali, il dilettantismo vecchio stile secondo me ormai ha poco senso. Sarebbe importante che i team giovanili italiani ottenessero la licenza Continental, come già in molti hanno fatto, perché riduci il gap col mondo professionistico e lo step è meno traumatico. Io ho fatto due anni in Continental, quando in Italia ce n'erano poche, prima di passare professionista con la Lampre, e mi sono accorto che rispetto ad altri colleghi ho fatto meno fatica ad adattarmi, anche se ho ancora molto da dimostrare».
Arriva il Natale, che regalo sogni (materiale o simbolico che sia)?
«Intanto spero che il DPCM mi permetta di celebrarlo con la mia famiglia. Come regalo mi piacerebbe tornare alla normalità. Noi ciclisti siamo fortunati perché possiamo fare il nostro lavoro senza troppi problemi, però mi mancano quei momenti di socialità della vita quotidiana. Dal punto di vista sportivo, invece, spero di poter riabbracciare i tifosi sulle strade, quest'anno è stato complicato non concedersi per foto e autografi ad arrivo e partenza. Rischi di fare la figura dell'arrogante, invece sono solamente le disposizioni che ci vengono date».
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