La corsa del mistero. Mai si era corso cambiando la formula così all’oscuro: la modifica all’ultimo momento, da cronosquadre a cronometàsquadre. Mai si era corso una cronosquadre (anzi, cronometàsquadre) così breve: cinque chilometri e mezzo. Mai si era corso così al buio: nel parcheggio di un grande supermercato. E mai si era corso così sotto terra: il parcheggio era infatti sotterraneo.
Mercoledì 6 maggio 1970. Giro di Romandia, che allora si diceva Giro della Svizzera Romanda. Cinque giorni, prologo, tre tappe e due semitappe di cui una crono individuale. Partenza generale da Ginevra, arrivo finale a Losanna. La preparazione ideale per il Giro d’Italia. Tra le formazioni al via, tutte con sei corridori, anche la Salvarani: Felice Gimondi capitano, Gino Cavalcanti, Wladimiro Panizza, Roberto Poggiali, Silvano Schiavon e Dino Zandegù.
“Il lunedì arrivammo in aereo, il martedì ci allenammo per 130 km provando anche il circuito stradale e poi bagni e massaggi, il mercoledì mattina ci svegliammo sotto il diluvio”, racconta Poggiali, che alla forza della memoria aggiunge quella di una serie di agende utilizzate come archivio e diario. Fu a quel punto che gli organizzatori annullarono il programma originario e improvvisarono quello alternativo. “Nel parcheggio sotterraneo di un grande supermercato – dice Poggiali -, si ricavò un percorso di 550 metri, da ripetere 10 volte, totale 5 chilometri e mezzo, segnato da nastri biancorossi tirati fra le colonne del parcheggio e dividendo le squadre a metà. Sei corridori sarebbero stati troppo in quella sorta di gimkana”. Luciano Pezzi divise i suoi: da una parte Gimondi, Poggiali e Zandegù, dall’altra Cavalcanti, Panizza e Schiavon.
“Mi caricai le responsabilità sulle mie spalle – sostiene Zandegù – che tanto erano larghe. Spalle rubate all’agricoltura, come sospirava spesso mio padre. La verità è che, dei tre, ero l’unico che lì sotto, e perdipiù al buio, ci sapeva fare. Fidatevi, gli dissi: non avevano scelta. Chi fa da sé, fa per tre, aggiunsi. Ma non so se capirono. Comunque al pronti-via mi misi in testa e tirai dall’inizio alla fine, anche perché non c’era modo né luogo per superarmi. Dietro di me: Gimondi. E dietro Gimondi: Poggiali. Fu ciclismo acrobatico, divertente e vincente”. “Primi, in 6’50”, 2” meno della Peugeot con Thevenet, Pingeon e forse Letort – spiega Poggiali -. Dico forse perché sull’agenda non lo registrai”.
Ma c’è un mistero: chi, dei tre Salvarani, passò per primo il traguardo e indossò la maglia verde edera di leader della classifica? Wikipedia, non sempre veritiera, segna Gimondi. Il sito wvcycling.com, piuttosto approssimativo, conferma Gimondi. L’altro sito procyclingstats.com, solitamente tra i più affidabili, stavolta si trincera dietro a un “no results (yet)”, risultati non (ancora) arrivati. Altro che precisione e puntualità svizzera.
Poggiali dice Zandegù, ma non ci potrebbe giurare: “Fece tutto lui da solo, era carico e assatanato, agile e potente, sfregava le orecchie contro le colonne. Io ero il terzo, stremato dalla fatica di rispondere alle frustate e rilanciare l’azione a ogni curva, un tira-e-molla tremendo, e più in là della mia ruota, un po’ per l’oscurità e un po’ per lo stress e la stanchezza, non riuscivo a vedere. Quella è stata la corsa più breve, ma anche la più faticosa della mia carriera. Avevo pensato addirittura di mollare e staccarmi, tanto il tempo sarebbe stato preso sul secondo, ma per orgoglio strinsi i denti e arrivai in fondo. Lì Gino Maioli, il nostro massaggiatore, mi prese in braccio. ‘Non ti ho mai visto così conciato’, mi confidò”.
Anche Zandegù dice Zandegù: “Di quel giorno ho ricordi piuttosto vaghi, ma so per certo che era impossibile superarmi, mi sarei dovuto fermare, avremmo perso tempo e probabilmente anche corsa e vittoria”. E la maglia? Zandegù alza gli occhi al cielo: “Chissà dov’è finita. Probabilmente mia moglie, la Lalla, in qualche pulizia di primavera l’ha buttata via”.
Quel Giro di Romandia si rivelò, per la Salvarani, dolce e ricco. Non solo la vittoria nel prologo a cronosquadre (anzi, a cronometàsquadre), ma anche quella in una semitappa con Zandegù, e poi tre giorni primi nella classifica generale con Schiavon, un secondo di tappa con lo stesso Schiavon e il sesto posto finale di Poggiali. “Così fui l’unico – spiega Zandegù – a vincere una tappa al chiuso e l’altra all’aperto, cioè una al buio e l’altra alla luce, cioè una in trio e l’altra di gruppo”.
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