Giro d’Italia, ma del ciclocross. Sette tappe. La prima lo scorso 4 ottobre, l’ultima il 6 gennaio. La più al nord a Buja-Osoppo, Friuli, la più al sud a Gallipoli, Puglia. Tutte le categorie, dagli esordienti ai master, comprese le corse promozionali. Il primo e la prima in classifica indossano la maglia rosa.
Il ciclocross è considerato, da sempre, il parente povero della strada. Quelli che corrono a proprie spese, quelli che non guadagnano una lira, quelli che ma-glielo-fa-fare. Quelli che gareggiano sulla spiaggia e lungo il mare, quelli che sguazzano nel fango fino a qui, quelli che pedalano anche a Natale e all’Epifania.
E’ un piccolo mondo antico, il ciclocross: si invade un’area – un parco, un campo, un litorale – e lo si trasforma in un villaggio, le macchine e le tende, i camper e i gazebo, i pullman e i rulli, i bar e i tavoli, e uno sciame di biciclette sul percorso e fuori dal percorso, chi compete e chi assiste, chi si concentra e chi si scalda, chi incita e chi fotografa.
Il bello del ciclocross è che tutti si conoscono, tutti si chiamano con il nome, tutti partecipano, dai debuttanti ai campioni, dai parenti ai patron, ognuno fa un po’ di tutto, ognuno è un po’ di tutto, ognuno ha un po’ di tutto. Nella tappa di Ladispoli ho incontrato vecchi eroi. Paolo Guerciotti mi ha raccontato quando – era il 1969 – venne a Bracciano su una Nsu Prinz lasciando a casa la ruota di scorta per poter montare le bici, poi nel campionato italiano in cui dilettanti e professionisti si cimentavano tutti insieme, primo Renato Longo, secondo Luciano Luciani, terzo Franco Livian, lui, settimo e vittima di una crisi di fame, si precipitò nel primo bar, pucciò quattro Buondì Motta in un cappuccino, ma non aveva soldi, e il barista lo rincuorò dicendogli che non faceva niente, omaggio della ditta.
E Vito Di Tano, due volte campione del mondo, mi ha spiegato che da anni – tempi non sospetti – ripete di come gli errori del ciclismo italiano siano soprattutto due, il primo quello di spremere troppo i corridori fin da piccoli, il secondo quello di non credere nella interdisciplinarietà, cioè alternare la pista alla strada, il cross alla mountain bike, tant’è vero che Sagan, Alaphilippe, Van der Poel e Van Aert hanno fatto tanto (e tanto bene) anche il ciclocross. E anche lui, Vito, corridore e ferroviere, e da anni direttore sportivo delle squadre di Guerciotti, faceva cross, pista e strada, e maturò a un’età in cui, oggi, i corridori sono già stati costretti a smettere per mancanza di fiducia, squadra e sponsor. Vito sostiene anche che il ciclocross regala quella esplosività indispensabile per scattare su una salita, per decollare in un tornante, per gestire un fuorigiri.
Domenica il Giro d’Italia, ma del ciclocross, pianterà tende e percorso a Buja-Osoppo. Sarà un trionfo di colori e sorrisi, di terra e fango, di semplicità e modestia, di cambi di passo. Una festa – a due ruote - sui prati.