È arrivato anche lui. Ultime pedalate, ultimi sospiri, ultimi sguardi. Poi finalmente il traguardo, quello finale. Due giorni fa è morto Pietro Scandelli: era stato un vincente, anche se gregario, il meglio della categoria e della qualità, dal 1963 al 1970, fra Salvarani, Molteni e Faema, al servizio di Adorni, Motta e Merckx.
Cremasco dalla nascita (1941) alla morte, Scandelli era una biglia, una figurina, un cognome nelle liturgiche telecronache di Adriano Dezan, ed era soprattutto una leggenda: quella della ventunesima e penultima tappa del Giro d’Italia 1966, mercoledì 8 giugno, da Belluno a Vittorio Veneto, 181 km, la cavalcata dei Monti Pallidi. Il terzo tentativo di fuga di giornata si rivelò quello buono: prima scattò Lucillo Lievore, poi lui, Scandelli. Se ne andarono poco prima di Sédico, e il gruppo li ignorò, a Feltre avevano due minuti di vantaggio, e il gruppo li lasciò, a Onigo otto, e il gruppo li mollò, a Pieve di Soligo quattordici e mezzo, e il gruppo li dimenticò.
«Andavamo regolari – mi raccontò Scandelli -, un po’ tirava lui, un po’ tiravo io. Dietro se ne fregavano, davanti guadagnavamo. Ci conoscevamo, io e Lievore, ma non ci parlammo, sapevamo quello che dovevamo fare. Pedalare e sperare, sperare e pedalare. A metà corsa c’era la prima salita, il San Boldo, una vecchia strada militare costruita nella roccia, roba da Prima guerra mondiale. Più dura del previsto. Tornanti. Io andavo su regolare, non feci niente per staccarlo, fu Lievore che si staccò da solo. Che faccio: lo aspetto o continuo da solo? Decisi di continuare da solo, avanti così finché non mi avessero preso». Non lo presero. Scandelli: «Andavo regolare, e non avevo la minima idea del mio vantaggio. Non esistevano radio né auricolari, c’era solo una moto con un uomo che scriveva numeri su una lavagnetta, ma non avevo la forza e neppure il coraggio di guardarli. In quei momenti non si pensa, non si prega, non si conta, non si fa nient’altro che pedalare. A una trentina di chilometri dall’arrivo la seconda salita, il Bosco di Cansiglio. Continuavo ad andare regolare, e continuavo a non avere la minima idea del mio vantaggio. Dal passo al traguardo era solo discesa. Mi chiesero addirittura di rallentare: avrei mandato tutto il gruppo fuori tempo massimo. Ebbi il tempo di alzare le braccia al cielo e capire che stavo vincendo una tappa al Giro d’Italia». Secondo, a 15’18”, Lievore, seguito (in moto), intervistato e immortalato da Sergio Zavoli in una memorabile puntata del “Processo alla tappa”. Terzo, a 16’30”, Bariviera, poi Partesotti, Ballini e il gruppo dei migliori con la maglia rosa, Motta.
Quel giorno, a Vittorio Veneto, Scandelli scoppiò a piangere: «Fatica ed emozione – mi ricordava -. In carriera ne avrei vinta un’altra, ma tutta un’altra cosa, la frazione di una cronostaffetta. Io, Dancelli e Motta, tutti e tre primi nel proprio tratto». Altre volte Scandelli avrebbe pianto senza lacrime, per una fatica senza emozioni: «Quando arrivavi secondo, come mi capitò in un’altra tappa al Giro. Quando ti dimenticavi di mangiare e bere e andavi in crisi di fame o sete. Quando dovevi scalare tre, quattro o cinque montagne, e già alla prima avevi mal di gambe. Però io non volevo rischiare, stavo con il gruppo ed evitavo il gruppetto, quello dei velocisti, che sfidava il fuori tempo massimo». Gli era rimasto un magone: «Lievore se la prese, disse che avevo fatto il furbo, che ero più fresco perché non avevo tirato. Ma non era vero, non feci niente per staccarlo, fu lui che si staccò da solo».
A 30 anni Scandelli chiuse con il ciclismo e aprì un bar-tabacchi. E continuò a dare e portare da bere. Un lavoro da gregario.
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