Quando si arriva all’autodromo Dino e Enzo Ferrari di Imola, si rimane incantati davanti alle foto, alte 3 metri, di grandi campioni. Auto importanti ed è facile immaginare il suono del motore, come una musica. Tra le tante gigantografie di piloti, spunta una gemma preziosa, è l’immagine di un ciclista con le braccia alzate al cielo, è Vittorio Adorni, che il 1° settembre del 1968, vinse il suo Mondiale nell’autodromo di Imola.
Il favorito quell’anno era Eddy Merckx e l’Italia faceva il tifo per Felice Gimondi. Ma il Mondiale non è una corsa come le altre, c’è sempre da rimanere sorpresi. Adorni ribaltò ogni pronostico e con una fuga partita a 90 km dal finale, arrivò per primo, con oltre 9 minuti di vantaggio sul belga Herman Van Springel e l’altro azzurro Michele Dancelli.
Quando ha saputo che l’Italia si era aggiudicata, con Imola, l’organizzazione del Mondiale?
«Appena è arrivata la notizia il mio telefono ha iniziato a squillare senza smettere. Non ricordo neanche chi sia stato ad avvisarmi per primo. Ma poco importa, la notizia è talmente bella».
Il suo è stato un Mondiale unico, quanto sarà differente quello che vedremo partire tra 20 giorni?
«Sarà sicuramente una corsa dura, il nostro era un circuito quasi interamente nell’autodromo, con 15 chilometri a giro e andavamo solo sulla salita dei Tre Monti. Anche qui c’è partenza e arrivo dall’autodromo, ma la differenza verrà fatta dalle salite verso l’Appennino che non saranno una passeggiata».
Quale fu il punto chiave del suo circuito?
«Senza dubbio la salita dei Tre Monti. Si chiama così perché c’è una salita con tre salite, ovvero tre punte di pendenza diversa. Era la parte più difficile per noi. Il nostro era un tracciato da 270 Chilometri. In quello che ci sarà tra pochi giorni con un circuito più lungo si può fare tranquillamente il vuoto».
Quanto sono cambiati i Campionati Mondiali?
«I Mondiali non cambiano, è il percorso a fare la differenza. Basta cercare un tracciato duro e sicuramente avrai una corsa bella. Non voglio sminuire l’arrivo in volata, ma è più bello quando a giocarsi la vittoria c’è un gruppetto che ha attaccato in salita e si giocherà la maglia iridata».
Che arrivo potrebbe esserci a Imola?
«È difficile da dire. Potrebbe anche esserci un arrivo in volata, ma con quelle salite da ripetere tante volte immagino una selezione senza pietà, con i corridori che si staccano dopo ogni giro».
Che Mondiale fu il suo, ci racconti quella giornata.
«C’era stata subito la fuga con Gimondi e Merckx, poi dopo ci fu un colpo di fortuna con i francesi di Anquetil che andarono a riprendere i fuggitivi proprio sulla salita di Tre Monti. Io mi girai e c’era Van Looy. Gli feci un cenno con la testa e pilotò lui la fuga con un piccolo gruppetto. Il lavoro grande lo fece tutto lui, devo riconoscerlo. Ricordo che a Van Looy chiesi se eravamo partiti troppo presto e lui mi chiese se avevo paura di morire. Così continuammo la fuga».
Lei poi decise di prendere in mano la situazione e di attaccare. Come si fa a scegliere il momento giusto?
«Il mio problema era diventato Van Looy, sapevo che dovevo liberarmi di lui, perché con un arrivo in volata lui avrebbe sicuramente vinto. Io non avevo lavorato tutto il giorno per arrivare secondo e a 90 chilometri dal finale ho deciso di attaccare e andare in fuga. Quello fu il momento giusto per me. Capisci quando devi andare, solo nel momento in cui ti sei fatto i tuoi calcoli e senti di poter rischiare».
Qual’è il ricordo più bello di quella giornata?
«Sicuramente il momento in cui ho passato la linea del traguardo. Poco prima mi sono voltato per vedere se c’era qualcuno, perché a Campobasso, persi proprio per la certezza di aver vinto io. In quella corsa alzai le braccia e da dietro mi superarono. Ricordo solo che sentii un gran rumore: erano i miei avversari che mi sorpassavano».
Cosa vuol dire indossare la maglia con sopra l’iride?
«È la maglia più bella di tutte e mi emoziono ancora adesso quando ne parlo. La mia è piegata in un cassetto e ogni tanto la prendo ancora e me la guardo. Vicino c’è la maglia azzurra di quel giorno con il numero del pettorale. Quando indossi quella maglia sei l’uomo che tutti riconoscono nel gruppo e hai delle responsabilità, perchè quella maglia va sempre indossata con rispetto. Un anno da campione del mondo è un anno indimenticabile».
Quanto è diverso il ciclismo di oggi dal suo?
«Il nostro era un ciclismo diverso, veramente eroico. Ricordo tappe di montagna, in cui pedalavamo in mezzo a muri di neve alti 4 metri dopo più di 290 chilometri e indosso avevamo solo un panno. Non si faceva la doccia nei bus come oggi, noi al massimo avevamo una maglia da mettere sopra. Le nostre strade erano molto più simili a quelle di Coppi e Bartali, con l’asfalto vecchio e rovinato. L’ammiraglia poi era una sola per tutti e non c’erano radioline e il meccanico che ti faceva il cambio ruota. Se c’era un corridore in fuga della tua squadra, l’ammiraglia passava, ti dava colla e tubolare e dovevamo arrangiarci in caso di foratura».
Le piace più questo di ciclismo o quello che ha vissuto lei?
«Ma forse era più bello il nostro, era più vero e sicuramente più duro. Era un altro mondo dove per alcuni aspetti dovevi sopravvive per rimanere in corsa. Per fare il corridore in quegli anni dovevi avere veramente una forza straordinaria, altrimenti non riuscivi a stare nel gruppo. Quello di oggi è un ciclismo un po’ troppo costruito».
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