Furono le Olimpiadi del boom economico, della dolce vita, della grande bellezza. Furono le Olimpiadi dei piedi scalzi di Bikila, delle scarpe alate di Livio Berruti, dei pugni guantati di Cassius Clay. Furono le Olimpiadi della ginnastica artistica nelle Terme di Caracalla, del canottaggio nel Lago di Albano, della lotta libera e greco-romana nella Basilica di Massenzio.
Le Olimpiadi di Roma 1960, dal 25 agosto all’11 settembre, furono anche il trionfo del ciclismo azzurro. Sei gare, cinque ori, un argento e un bronzo: con la doppietta di Gaiardoni (velocità e km da fermo), i trionfi del tandem (Bianchetto-Beghetto), del quartetto su pista (Arienti, Testa, Vallotto e Vigna) e di quello su strada (Bailetti, Cogliati, Fornoni e Trapè); l’amarissimo secondo posto nella prova su strada (Trapè); l’allegro terzo nella velocità (Gasparella). Un universo che a quel tempo era ancora soltanto maschile. Infine i racconti che diventarono letteratura: il soggiorno non nel Villaggio olimpico di Roma, ma nel convento delle suore di clausura alle Frattocchie; il velodromo dell’Eur – oggi smantellato - strapieno e straripante; le Fiat 500 come premio per gli olimpionici...
Furono le Olimpiadi anche di Giancarlo Peris. Aveva 18 anni, veniva da Civitavecchia, era uno studente del liceo classico, e come vincitore della corsa campestre nella provincia di Roma era stato scelto per essere l’ultimo tedoforo: 350 metri corricchiando e 92 gradini saltellando per portare il fuoco nello stadio Olimpico e accendere il braciere divino. L’ho cercato e l’ho trovato. Ha 78 anni, abita ancora a Civitavecchia, ha fatto l’insegnante di italiano e anche di atletica. Ci siamo seduti in un bar e mi ha raccontato la sua storia. Ne è nato un ebook, “Il fiaccolaro” (66thand2nd, 1,49 euro), e forse perfino un’amicizia.
La convocazione: “In agosto, un paio di settimane prima dell’inizio dei Giochi, mi arrivò a casa una lettera del Coni. Era la convocazione come ultimo tedoforo della fiaccola olimpica. Non ci potevo credere. Ma dovevo crederci. E da quel momento cominciai a sforzarmi, uno sforzo terribile, per mantenermi calmo”. La prova generale: “La cosa che meno mi preoccupava erano proprio i 92 gradini. Nella casa dove abitavo, a Civitavecchia, in via Cialdi, zona Marina, da 13 anni, tutti i giorni, sei o sette volte al giorno, ne facevo 169 per salire all’appartamento al sesto piano. L’ascensore si era bloccato all’ultimo piano il giorno in cui la casa venne bombardata durante la Seconda guerra mondiale. E nonostante gli anni, 15, ormai trascorsi dalla fine della guerra, non era mai stato sistemato”. Il grande giorno: “Tornai a Roma sempre con Oscar Barletta, il mio allenatore. Sempre in treno. Sempre da Civitavecchia alla stazione Termini su un locale, da Termini a piazza Mancini con il 910, da piazza Mancini allo Stadio dei Marmi a piedi. Dalla sacca tirai fuori maglietta e pantaloncini della società e le scarpe da ginnastica, ma stavolta furono loro a consegnarmi la divisa ufficiale, maglietta bianca a mezze maniche con uno stemma sul petto, la lupa e i cinque cerchi, i pantaloncini corti bianchi, le calze corte bianche, le scarpe – Superga - bianche. Mi consegnarono la fiaccola. Era già accesa”. L’attesa: “Come stabilito, aspettai il pronti-via. Ma non arrivava. Fu un’attesa estenuante. Una decina di minuti... Aspettando, Oscar mi si avvicinò, allungò una sigaretta alla torcia e se l’accese. Lo devo fa’, disse. E quando mai mi ricapiterà un’occasione del genere?, si giustificò”. Il via: “Non vidi nulla, non sentii nulla, non provai nulla. Come se fossi sotto vuoto, sotto spirito, sotto vetro. Avevo un solo pensiero: non sbagliare nulla. Un piede dopo l’altro, passi corti e sicuri, senza indugiare, senza scivolare, senza inciampare”.
Il fiaccolaro, 60 anni dopo, sorride. E’ brace, non cenere, quella che accende i suoi occhi.
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