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Quasi mille chilometri in nove tappe, dalla Toscana (Grosseto) alla Puglia (Motta Montecorvino), dall’11 al 19 settembre. Il Giro Rosa 2020 si farà. Il suo patron Giuseppe Rivolta parla di “rispetto”, “umiltà” e “orgoglio”, nel suo comunicato-stampa lo definisce comunque “una pazzia”, ma ricorda come “non abbiamo voluto arrenderci”, “abbiamo lottato” e “fatto sacrifici”.
Trattandosi di donne in bicicletta, non è una novità. In un libro che s’intitola proprio così (“Donne in bicicletta”, Ediciclo, 496 pagine, 20 euro), Antonella Stelitano ha tracciato “una finestra” sulla storia del ciclismo femminile in Italia. Modesta, l’autrice. Questo è il più documentato libro sull’argomento.
Gli inizi furono in salita, se ancora nel 1923 padre Agostino Gemelli discriminava le donne, nello sport, domandandosi: “Non c’è pericolo che la donna, con l’esercizio fisico, perda quella grazia femminile che tanto l’adorna e che è giusto che essa abbia?”. E rispondendosi: “Ci vuole della ginnastica buona, sana e... femminile; senza calzoni, senza atletismo e soprattutto senza far concorrenza a quella che fanno gli uomini”. Meno nobile e diplomatico il barone Pierre de Coubertin, fondatore delle Olimpiadi moderne: riferendosi allo sport, “questo scompiglio non è fatto per le donne. Esso non giova mai loro. Se esse vogliono affrontarlo, che avvenga nel loro privato”. E ancora Felice Gimondi, che con la bici aveva un rapporto quasi matrimoniale, nel 1984 dichiarava: “Io una donna la vedo sì in bicicletta, ma su quelle belle, da passeggio”.
Figurarsi il ciclismo: uno scandalo. Alfonsina Strada sfidò pregiudizi e disagi: “Bici da uomo e pantaloni alla zuava... unica donna in un ambiente di soli uomini, per lei non ci sarebbe stata alcuna differenza”. Fu lei a farla, la differenza. “Nella bisaccia del maglione teneva una spugnetta umida che si passava sulle ferite dopo ogni caduta”. Dal Giro d’Italia (solo uomini più lei) del 1924 fino al Giro Rosa (solo donne) del 2020, tutta un’altra storia. Ma nel frattempo, per dirla con Rivolta, non si sono arrese, ma anzi hanno lottato e fatto sacrifici atlete come Paola Scotti, la prima italiana tesserata dall’Uvi e la prima campionessa italiana (a 19 anni, nel 1963): “A notarla è Renato Ginofero, la cui famiglia gestisce una trattoria lungo la Via Emilia. Ginofero osserva Paola quando passa: oltre alla grazia e alle lunghe trecce castane, riconosce nella sua pedalata la potenzialità di una campionessa”. Identica vocazione e determinazione aveva Elisabetta “Lisy” Maffeis: “Quando si andava a correre – il suo ricordo - si prendevano anche insulti: a volte pesanti, altre volte qualcuno si limitava a gridare ‘andate a fare la calzetta’”. Rossella Galbiati, la prima italiana a sfiorare una medaglia mondiale (quarta nella velocità nel 1979, poi bronzo nel 1984), non rinunciava “a quel tocco di femminilità che è giusto rispettare: corre con gli orecchini, due piccolissime palline d’oro infilate nei lobi”.
Stelitano cita anche Rivolta (“Ogni successo di queste ragazze più che dare coraggio e forza a me, lo dà a tutto il movimento femminile e a tutti i miei collaboratori”) e disegna il Giro Rosa (“Un complesso meccanismo che governa stando attento a rendere merito in primis alle atlete e ai valori che rappresentano”). Ecco la partecipazione del Centro antiviolenza di Vittorio Veneto, ecco le maglie dedicate alla piccola Giada colpita da una rara malattia... Morale: “Le donne non si tirano mai indietro di fronte a una buona causa”.
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