Come, ai primi del giugno 1963, alla radio, con il bollettino medico di Papa Giovanni XXIII. Come, l’11 settembre 2001, alla tv, con le immagini infuocate delle Torri Gemelle. Come, tre mesi fa, al telefonino, con i numeri dei contagiati e dei morti per il Covid-19. Come, adesso, dovunque, comunque, carpendo dispacci e referti, aspettando sentenze e verdetti, arrestando il respiro e perfino i battiti del cuore, trepidando e pregando, invocando e sperando, già convivendo e accettando, perfino familiarizzando con espressioni terrificanti come “fracasso facciale”.
Alex Zanardi. A come Alex e Z come Zanardi. Dentro, tutte le lettere e tutti i numeri. Dentro, tutte le emozioni e le sensazioni. Dentro, tutti i princìpi e tutti i fini. Dentro, tutto e il contrario di tutto. Dentro, la coscienza che quest’uomo, e poi questo mezzo uomo ingigantito, raddoppiato, moltiplicato, è stato con noi, fra noi, uno di noi, meglio di noi, soprattutto più di noi, infinitamente più di noi. Perdendo, aveva guadagnato. Accorciandosi, si era allungato e allargato. Rimpicciolendosi, si era ingrandito. Morendo, era risorto, resuscitato, rivitalizzato. Per dieci nostre azioni normali, cento sue imprese speciali. Ciascuna da raccontare, stupire, strabiliare. H4 e H5, a cronometro e in linea, staffette, maratone, triathlon, Ironman. Ma anche in tv, a teatro, nella vita quotidiana. Sarebbe potuto salire sull’Everest, sarebbe potuto scendere nei Sargassi. E’ stato nell’Aldilà, riconquistava l’Aldiqua.
Alex Zanardi aveva dovuto ricominciare non da zero, ma da meno due. Due gambe. Aveva dovuto imparare una nuova grammatica del movimento: camminare, correre, infine garegggiare con le braccia. Aveva dovuto imparare anche una nuova grammatica del pensare, dell’esistere, del vivere. Imparare a correre non con le gambe ma con le braccia è come imparare a leggere non con gli occhi ma con le mani, a dipingere o a suonare non con le mani ma con i piedi, a ragionare non con la testa ma con il cuore. Se prima dell’incidente di Lausitzring nel 2001 guidava una macchina, lui poi si è sostituito alla macchina, si è trasformato in una macchina, è diventato una macchina. Una macchina da paraciclismo e da paralimpiadi, una macchina da guerra per la pace, una macchina da rivoluzione sociale e culturale. Una macchina corporea, umana, muscolare, senza gambe ma a ruote. A forza di braccia. E a ragione di cuore.
Aveva, fino all’altro giorno, un’agenda da presidente della repubblica. Impegni, incontri, inviti. Appuntamenti. Vagoni di messaggi, valanghe di richieste, tempeste di telefonate. A un amico, rispondeva al volo. Altrimenti, bisognava mettersi in coda. Per un amico, si prodigava gratis. Altrimenti, bisognava pagare ingaggi. Con questi soldi finanziava Obiettivo 3, un’associazione di avviamento e sostegno allo sport per atleti disabili. Calamitava platee fisiche e virtuali, catturava capi politici e poveri diavoli, seduceva nerd e coatti, frequentava salotti e saturava stadi. Era – a suo modo – Achille ed Ettore, Bartali e Coppi, Gesù Cristo e Che Guevara. Un padre della patria, un iradiddio, altro che.
In questi altri e nuovi diciannove anni Alex Zanardi ha ribaltato il concetto, la condizione, la posizione, la categoria dei disabili. Prima di lui erano di serie B: compatiti, commiserati. Lui li ha rimessi e riammessi al mondo, valorizzati, esaltati, inorgogliti. In altre epoche sarebbe stato considerato un semidio o un arcangelo, un marziano o un supereroe. Invece è una via di mezzo fra Nembo Kid e la Pimpa, fra Batman e Corto Maltese. E non ce n’è uno che possa parlare o scrivere male di lui. Per dire: nelle sue vittorie non c’è mai stata neppure l’ombra del doping. Il suo doping era la vita, forse anche il destino. Ci giocava, ci scherzava, lo sfidava. Voleva vivere, ma una vita vera, avventurosa se no che vita è, da far venire i brividi. Di vita ne aveva vissuta già una, ne ha vissuta una seconda, magari ce ne sarà una terza. Zero confini, zero frontiere, zero limiti.
Una volta gli domandai se facesse qualcosa per la sicurezza sulle strade. “Mia nonna – mi rispose - si raccomandava: ‘Va’ piano’. Oggi esistono tecnologie per scongiurare incidenti dovuti ad altre tecnologie: penso al bluetooth per chi guida la macchina rispondendo ai messaggi”. Poi riconquistò la sua leggerezza: “Mi ricordo quella volta in cui feci un volo catastrofico, io da una parte e la carrozzina dall’altra, atterrai sull’osso sacro, un uomo si precipitò a salvarmi, quando mi vide senza gambe rimase terrorizzato, balbettò ‘si è fatto male?’, gli risposi ‘no, non si preoccupi, è roba vecchia’”.