Per Dino Buzzati era Ettore, per Gianni Brera Frate Cipolla, per i francesi che l’hanno sempre adorato Gino il Pio o L'Homme de Fer, per il Fascismo un cattolico intransigente e sfacciato, che dedicava le sue vittorie alla Madonna anziché al Duce. Per gli Ebrei un Giusto tra le Nazioni, anche se lui non ha mai voluto che si sapesse e ha fatto di tutto per non farlo sapere, perché “il bene si fa e non si dice”. Per Gioia, Gino Bartali è stato il nonno migliore che si potesse desiderare, e oggi a vent’anni dalla morte, lo ricorda con parole dolci, piene d’amore.
Vive a Montegranaro Gioia Bartali, con il compagno Emanuele e i figli Matteo e Leonardo. Vive nel paese che ha dato i natali a Michele Gismondi, uno dei più fedeli gregari di Fausto Coppi e per il quale, da quelle parti, hanno ancora un amore smisurato.
«Sono arrivata qui nelle Marche proprio grazie a mio nonno, che chiese una mano a Gismondi affinché mi trovasse un posto di lavoro. Arrivai alla “BlueStar srl” una delle tante aziende del comparto calzaturiero della zona, una delle poche che è rimasta in piedi dopo il boom delle delocalizzazioni».
Un grande nonno, che in questi 20 anni è diventato ancora più grande.
«Per me il nonno è stato tutto: il più grande scalatore della storia, più di Coppi e Gaul, più di Fuente e Massignan, financo Pantani, ma soprattutto è stato un uomo esemplare. Sempre in Giro per le corse, ma quando era a casa c’era e si faceva sentire. Per noi è sempre stato un modello. Nonno Gino e nonna Adriana non li ho mai visti litigare, mai una discussione: un esempio. Ricordo che tutte le mattine, per me e mia sorella Stella, c’erano sempre i soldini spicci per comprare la merenda. Li metteva in una ciotolina posta in un comparto della cucina. Quella era una sua prerogativa».
Le parlava di Fausto Coppi?
«Certo che sì, tra di loro c’è sempre stata grande amicizia. La loro rivalità? Creata a regola d’arte dalle loro case di appartenenza: dalla Bianchi e dalla Legnano. Pochi sanno che, quando Serse morì, al funerale Fausto chiese espressamente a Gino, che a sua volta qualche anno prima aveva perso il fratello Giulio per una caduta, di stare con mamma Angiolina, distrutta dal dolore».
Cosa ricorda del nonno?
«Che era golosissimo di dolci, una volta riuscì a mangiarsi dodici cremini uno via l’altro. E poi adorava la carne, che anche quando si era trasferito a Firenze andava a comprare da Marino a Ponte a Ema, perché era la migliore di tutte. Andava pazzo per la finocchiona e la ribollita. Mangiava quasi senza masticare, velocissimo, un’abitudine che purtroppo abbiamo preso un po’ tutti in famiglia, sia io che i miei figli. La nonna cercava di tenerlo a freno, lo metteva a dieta, ma con esiti alterni. Tra i ricordi più cari che ho c’è quello del disegno. Avrò avuto 5 anni ed ero seduta al tavolo della cucina intenta a colorare delle figure su un foglio, ad un certo punto il nonno mi prende la mano e mi sussurra: “Amore mio, devi cercare di colorare dentro i margini”. Quello fu il primo grande insegnamento, che poi è un po’ il simbolo del suo modo di pensare: restare nei margini, nelle regole. Lui era davvero così».
Uomo di grande fede.
«Passa per essere stato un brontolone, mai contento, bastian contrario, ma lui amava la verità. Non sopportava la menzogna. La bugia era peccato, quindi era un uomo puro, che si fidava ciecamente del prossimo e qualche volta ne hanno anche approfittato. Era un cattolico vero. Fece il viaggio di nozze in Vaticano. Conosceva tutti i Papi, da Pio XII in avanti. Nel suo appartamento di Firenze aveva un altare consacrato, in cui si celebrava la Santa Messa. Quando venne a mancare il 5 maggio di venti anni fa, una settimana prima che partisse il Giro del Giubileo da Roma, volle che lo si vestisse con il suo saio del terziario carmelitano. Sandali e piedi nudi, oltre ad un crocifisso sul petto».
Uomo di grande fede, ma anche di grandi silenzi.
«Verissimo, ha fatto tantissime cose senza dirlo. Ha aiutato tanto Fausto, anche all’insaputa della Dama. Quando nel 1985 uscì “Assisi Underground”, un film di Alexander Ramati tratto da un suo libro andò su tutte le furie. Lì fu esplicitato con tanto di nome e cognome quello che il nonno fece in quel periodo per salvare migliaia di ebrei. Lui voleva denunciare la Rai, ma i dirigenti della tivù di Stato gli risposero che poteva fare quello che voleva, ma avrebbe dovuto denunciare anche tutti i frati, le suore, e le persone di Assisi che avevano raccontato quei fatti nei minimi particolari. A papà Andrea, gli ripeté fino all’ultimo: “Voi saprete tutto al momento giusto”. Per certi versi, con i suoi silenzi o mezze verità, ha contribuito a tenere vivo anche il mistero della borraccia…».
In che senso, scusi?
«Non può immaginare quante volte gli hanno posto questa domanda: chi l’ha passata a chi? E lui regolarmente rispondeva sempre allo stesso modo: “lei per chi tifa?”. Se l’interlocutore diceva Coppi. Lui serafico di rimando: “Allora me l’ha passata Coppi”. E viceversa… ».
Un’immagine che ha di lui…
«A casa, in piedi, sempre al telefono. E poi quanta corrispondenza. Anche il nonno era uno che scriveva molto: ho più di 200 lettere, e me le sono lette tutte. Lettere d’amore, nelle quali parla della sua vita, con affetto e fede. Ho tantissime cartoline, che il nonno scriveva ogni santo giorno. Al Tour del’48, quello dell’attentato a Togliatti, le scrisse tutti i giorni. E poi ne ho anche una che lo ritrae con il Gabibbo, quando nel’92, a 77 anni suonati, andò a condurre il noto tiggì satirico di Antonio Ricci con Sergio Vastano. Si mise in gioco e si divertì molto».
Cosa le dispiace di più?
«Sapere che non ci sarà più un Bartali. Nel senso che ci sono cinque pronipoti - due miei e tre di mia sorella Stella - ma il cognome Bartali non ci sarà più. Questo un po’ mi dispiace».
Cosa la colpisce ancora oggi?
«L’amore degli italiani per il nonno. Sento sempre un grande affetto. Un grande amore. Questo è il bene più prezioso che il nonno ci ha lasciato. Un senso di bene che fa ancora bene».
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