Per Elisa la bicicletta è sorella e compagna, mezzo e strumento, simbolo e manifesto. Per Elisa la bicicletta è anche fratello, da seguire, emulare e inseguire. Per Elisa Longo Borghini, figlia d’arte, cresciuta a pane e sport, il ciclismo è vita e movimento, non più riscatto, perché grazie al cielo le donne nel frattempo di strada ne hanno fatta tanta e non c’è più il bisogno di alzare la voce o battere i pugni per farsi accettare, anche se manca sempre un riconoscimento da professioniste da ottenere.
Elisa è cresciuta sportivamente parlando con i racconti di mamma e papà che i Giochi li hanno affrontati per davvero, da atleti o tecnici. Guidina Dal Sasso, la mamma, è stata azzurra nello sci di fondo: tre le edizioni dei Giochi invernali nell’era di Manuela Di Centa e Stefania Belmondo; Ferdinando Longo Borghini, responsabile dei materiali nella Nazionale di sci di fondo dal ‘72 al ‘94, cinque. Il fratello Paolo professionista per undici stagioni al fianco di campioni del rango di Basso, Sagan e Nibali.
Elisa Longo Borghini, 28enne piemontese di Ornavasso, è il simbolo del ciclismo italiano nel mondo, sia perché è una vincente, sia perché corre per una delle formazioni più importanti del pianeta: la Trek Segafredo, la stessa formazione che annovera tra le proprie file Vincenzo Nibali, la speranza Giulio Ciccone e il danese campione del mondo in carica Mads Pedersen. Nel suo palmares un Giro delle Fiandre, un bronzo olimpico a Rio e uno mondiale nel Limburgo. Poi quattro titoli italiani (tre a cronometro e uno in linea). La raggiungiamo nel suo “buen retiro” di Onravasso, in questo periodo interminabile e difficile di coronavirus.
Elisa, come va?
«Bene. Fortunatamente ho la fortuna di avere un mio appartamentino con tanto di giardiuno proprio accanto a quello dei miei genitori: non posso certamente lamentarmi».
Come trascorri il tempo?
«Leggo, studio e mi alleno. Rulli e palestra, che ho in casa. Se faccio una seduta con i rulli arrivo anche a tre ore, massimo tre ore e mezza. Se faccio un ora e mezza di ginnastica, di rulli non vado oltre l’ora e mezza. Due volte alla settimana, poi, facciamo dei “raid” su “Zwift” organizzati dalla Trek Segafredo, la nostra squadra. Siamo tre o quattro professionisti per volta che al giovedì e alla domenica pedaliamo con mille/duemila appassionati: siamo sempre dei bellissimi grupponi, che riescono anche a interagire. C’è generalmente un leader (l’ultimo è stato Koen de Kort, ndr), che detta l’andatura, buona ma non impossibile, e tutti gli altri dietro. Questo è anche molto divertente, mentre di rulli non ne posso davvero più».
Sei il simbolo del ciclismo femminile, come vedi il movimento?
«Stiamo vivendo un momento molto dinamico. Secondo me stiamo crescendo tanto e bene, soprattutto nel mondo, ma anche l’Italia si sta’ attrezzando parecchio. Siamo chiaramente in espansione, lo sport coniugato al femminile ha avuto un forte impulso, e le squadre maschili di World Tour ci hanno dato una bella mano per crescere ulteriormente. E questa crescita non è solo organizzativa, ma soprattutto tecnica: oggi le nostre corse sono diventate anche molto più belle da vedere. Il livello si è alzato tantissimo. Le nostre prestazioni hanno un valore tecnico ragguardevole. Peccato solo che il coronavirus ci abbia bloccato, perché quest’anno avremmo avuto la possibilità di correre sia la Freccia che la Liegi con tanto di diretta tivù: il mondo si è accorto di noi, ma ora è giusto pensare alla salute delle persone. Il Covid-19 ha spostato giustamente le attenzioni su una priorità di salute comune, il tempo delle corse tornerà e sarà più bello di prima».
Però non siete ancora state riconosciute professioniste…
«Per l’organismo mondiale della bicicletta (l’UCI, ndr) lo siamo, per l’Italia no. C’è un disegno di legge pronto, ma come è ovvio che sia, in questo momento ci sono altre priorità. Ma è chiaro che noi donne dobbiamo non solo contare di più, ma dobbiamo avere anche uno status come quello dei colleghi ragazzi».
Quale è stato il campione che ti ha portato al ciclismo?
«Noi siamo una famiglia che ha sempre mangiato pane e sport. Il ciclismo poi ce l’ho davvero nel mio Dna. Il mio campione? Mio fratello Paolo. È sempre stato il mio eroe, il mio esempio, il mio cavaliere alato. Per me è stato esempio e stimolo e sono felicissima di essere arrivata dove sono arrivata grazie alla mia famiglia, ma soprattutto a mio fratello che adoro come poche altre persone al mondo».
Nessun campione o campionessa del passato…
«Cadel Evans mi è piaciuto tantissimo: un autentico cagnaccio, come diciamo noi in gergo per definire uno che non molla mai. Oggi senza ombra di dubbio Vincenzo Nibali: lo osservo, cerco di imparare. Lui è davvero di un altro pianeta. Classe e talento allo stato puro».
Maria Canins l’hai mai conosciuta?
«Certo che si, ma per me lei non è un simbolo del ciclismo, ma dello sci. L’ho conosciuta quando praticava sci di fondo e vinceva la Marcialonga».
Morena Tartagni, Luigina Bissoli, Mary Cressari, ti dicono qualcosa…
«So che sono state donne fantastiche, importanti quanto Alfonsina Strada, perché sono state capaci di rompere pregiudizi e lottato come poche. Il ciclismo per troppo tempo è stato considerato sport per soli uomini, dove le donne sono sempre state viste solo come delle intruse, delle semplici e inguaribili fanatiche. Però Morena, Luigina e Mary non le ho mai conosciute: un giorno mi piacerebbe poter parlare con loro. Oggi se noi siamo arrivati fin qui, gran parte del merito è senza dubbio loro».