Gianni Sartori era un uomo-cannone: specialista nel chilometro da fermo. Adesso è un cicloviaggiatore a chilometraggio illimitato. Questo suo ritratto era rimasto nel cassetto.
Il chilometro da fermo. Una guerra lampo, ma a pedali. Tutto e subito, senza respiro, alla morte. Trasformando, in un minuto, la tensione in intossicazione, i nervi in crampi, l’adrenalina in acido lattico.
Gianni Sartori era un proiettile in canna, la canna di una bicicletta, era l’uomo-cannone. Tre titoli italiani, un oro e un bronzo mondiali, un quarto posto olimpico, un primato mondiale (con la maglia del Velo Club Bassano). Un signore dell’anello negli anni Sessanta e Settanta. Una corsa cominciata su una bici da panettiere (“Con doppio portapacchi, e senza pacchi pesava una ventina di chili. La mia famiglia era di panificatori”), proseguita su una bici sportiva (“Trasformata da corsa. A 14 anni ero già iscritto alla Cicli Bassano”), inaugurata da una corsa (“Arrivo a Breganze, in salita, mi dissi ‘mai più’, e quella fu la prima lezione, mai dire mai”), baciata da una prima vittoria (“In una volata di gruppo, e fu lì che scoprii di avere doti da velocista”).
La prima volta in pista fu un’illuminazione: “A Mantova, per una riunione. Avevo 18 anni. C’erano i reduci dell’Olimpiade di Tokyo 1964. Vinsi addirittura due prove: velocità e chilometro. Poi avrei fatto anche tandem e inseguimento a squadre. Guido Costa, il commissario tecnico della nazionale italiana, mi notò, mi parlò, mi portò al Vigorelli, a Milano, nella mitica bottega di Faliero Masi, sotto le tribune, ma fronte strada. Mi fece una bici su misura”. La vita diventò sogno, o forse un sogno diventò la vita: “Con quella bici, e con quel sogno, cominciai a frequentare i velodromi di Varsavia, Leningrado, Mosca, Bratislava…”. Da quel giorno fu pista (“La pista di casa era proprio a Bassano, in asfalto grezzo, 410 metri di lunghezza, curve basse, quasi un’autostrada”), fu pista e strada, fu chilometro e chilometri, fu corse e campionati, fu centesimi di secondo e anni di vita, fu allenamenti e collegiali, fu anche un massaggiatore (“Molto di più: scienziato, psicologo, anche secondo padre”) come Giannetto Cimurri.
Un chilometro di lezioni: “Ai Mondiali di Francoforte nel 1966, stecche sui denti, undicesimo”. Un chilometro di gloria e di storia: “Nel 1967, a Roma, 1’04”61, record del mondo”. Un chilometro senza soldi: “Quarto all’Olimpiade del 1968 a Città del Messico, ma cinque giorni prima ero caduto per un tombino, mi ero fatto male al ginocchio, Costa me la giurò”. Un chilometro senza rimianti: “Severino Rigoni venne due o tre volte a casa mia per convincermi a ricominciare, e ricominciai”. Un chilometro indimenticabile: “Una gara bestiale, come i 200 metri nell’atletica, spari tutto e non hai mai la sensazione di avere sparato veramente tutto. E pensare che le prestazioni migliori le realizzai quando mi sentivo morto”.
Evaso dalla claustrofobia (“Ma io non mi sono mai sentito chiuso”) dei velodromi, Sartori si è aperto ai cicloviaggi, ai ciclopellegrinaggi, alle cicloavventure (“E si apprezza la semplicità, la essenzialità”). Il primo a Santiago di Compostela: “Fui conquistato dalla essenzialità di quella che avrebbe dovuto essere una vacanza e che invece si rivelò come una esplorazione dentro e fuori di me”. Poi la Patagonia: “Ci andai con un amico, in tenda, per un mese. Incontrammo tutto: pioggia, neve, vento. Fu amore a prima vista, a primo respiro, a prima pedalata. Ci ritornai altre cinque volte. Dal Perù, dal Bolivia, dal Cile, dall’Argentina. La Cordigliera. Zone straordinarie, fantastiche, meravigliose, non ci sono mai aggettivi adatti. Orizzonti più orizzontali. Colori più forti, aria più sottile. Vulcani, deserti, parchi naturali, altipiani a 4 mila metri sul livello del mare. Mercati, vitali. Villaggi, anche abbandonati. Cactus, come sculture. Strade minerali, fossili, tritate. Migliaia di chilometri, con un carico di 25 chili”.
Da allora Sartori ha moltiplicato i suoi chilometri da fermo in itinerari, attraversate, raid da nomade, da viandante, da viaggiatore: “Senza cronometri, senza primati. Solo contemplazione, riflessione, piacere. Una voglia diventata bisogno e convertita in progetto. Non scrivo, ma fotografo. Per ricordare e trasmettere”. La vita è una staffetta.