Marco Pantani secondo Roberto Pregnolato. Il Panta, il Pantadattilo, il Pirata e il suo massaggiatore. Lo scalatore che veniva dal mare e chi per 14 anni ne messaggiava i piedi, le gambe, la schiena, il collo e forse anche l’anima. Il corridore che per un decennio ha infiammato le strade e l’uomo che ne condivideva muscoli e segreti. Lunedì 30 marzo, alle 20, su Sportitalia, nell’ambito del programma “Snaps” (intervista di Roly Kornblit, regia di Mario Maellaro), 45 minuti in cui Robespierre (Pantani chiamava così Pregnolato) racconta il suo Marco.
Quello di Pregnolato è un punto di vista, seppure privilegiato. E’ una verità, non la verità. E’ anche una visione del mondo particolare, individuale, fatta di conoscenza ma anche di complicità, fatta di amicizia ma anche di interessi. Comunque interessante. In questi 16 anni dalla morte di Pantani, Pregnolato ha sempre ribadito la propria opinione. Qui, stavolta, la precisa: tutto è cominciato “da Madonna di Campiglio”, si è trattato di “un complotto”, e “nessuno lo ha protetto”. Qui, stavolta, Pregnolato fa nomi e cognomi: dal direttore sportivo Beppe Martinelli alla manager Manuela Ronchi, ma anche Felice Gimondi, e poi tutte le istituzioni, dal Coni alla Federciclismo, dalla Mapei ai gruppi sportivi, con un particolare accanimento verso “la stampa, brutta gente, sempre contro”, con l’unica eccezione di “Davide De Zan, un signore”. E perché? “Perché Marco viaggiava fuori dal sistema”.
Pregnolato commette un errore fondamentale, quando sostiene che “si poteva usare l’Epo” per “alzare l’ossigenazione del sangue”. Non è vero. Non si poteva usare: l’eritropoietina era considerata doping. Ma siccome non si riusciva a scoprirla attraverso i test, era stato fissato il limite del 50 per cento (più un altro 1 per cento per compensare l’imprecisione dell’esame) nel valore dell’ematocrito, oltre il quale l’atleta sarebbe stato sospeso non per doping, ma per preservarlo da rischi contro la sua salute. Il sangue, troppo denso, avrebbe potuto provocargli ictus, infarto, embolia. Quindici giorni dopo un caso di positività (o non negatività), l’atleta si sarebbe dovuto sottoporre a un nuovo esame e se l’ematocrito fosse sceso sotto il 50 per cento, avrebbe potuto ricominciare a gareggiare, senza squalifica. Purtroppo era quello il sistema, e Pantani era dentro quel sistema, quel metodo, quella logica. Perversa.
Pregnolato ammette che la sera precedente il previsto controllo dei commissari lui e il Panta avevano “controllato il sangue”, che erano “tranquilli”, e ha spiegato addirittura che se Marco “aveva un problema, poteva camuffare come voleva”. Per Pregnolato, e anche per Pantani, la questione non era morale, ma pratica: era possibile “curarsi” e “aiutarsi” (questi i verbi usati dai corridori in quel periodo), cioè doparsi, ma solo fino a un certo punto, perché fino a quel punto esisteva una specie di permesso, di condono, di grazia. Si chiudeva un occhio. Pregnolato torna su quel giornalista che al telefono con la redazione disse “finalmente abbiamo incastrato il campione”, sulle scommesse denunciate dal bandito Renato Vallanzasca in prigione, sulle tattiche proposte dall’altro direttore sportivo Alessandro Giannelli (“Lasciamo andare via la fuga... sarebbe meglio... un problema se vinciamo tanto...”), ancora sulla Ronchi (“La manager lo ricattava”), ancora su Martinelli (“Non ha fatto niente per salvaguardarlo”), infine sulla cocaina (“Dopo Madonna di Campiglio... un piccolo problema... nato quando ha conosciuto la ragazza...”).
Pantani ha regalato emozioni incancellabili. Era un uomo semplice e generoso, forte in bici ma fragile giù dalla bici, amato dai compagni e rispettato dai colleghi, ebbe la sfortuna di vivere e correre negli anni di piombo del ciclismo (oggi la sensazione è che questo mondo sia molto più pulito) e che alla fine fu trattato come un Bancomat. Il suo ciclismo era inquinato da una ipocrisia generale, ma né lui né Pregnolato ne erano immuni o liberi.
La lunga intervista è comunque un documento importante. E merita di essere vista e discussa. Esponendosi, come ha fatto Pregnolato. E schierandosi, come ho fatto io.