E’ già passato un giorno da quando siamo non più Senzabrera e Senzafossati, ma anche Senzamura. Se alla mancanza di Gianni Brera ci eravamo abituati e all’assenza di Mario Fossati rassegnati, dalla morte di Gianni Mura siamo ancora gelati, suonati, slavati, spenti. Si è smorzata la luce, siamo rimasti al buio, ci vorrà un po’ per orientarci.
Mura era uno di quei giornalisti indispensabili cui l’eternità andava comunque stretta. Da solo, fra calcio e ciclismo, Mondiali e Olimpiadi, calici e forchette, trattorie e osterie, ritratti e interviste, partite e tappe, pensieri e commenti, ha consumato metà foresta amazzonica. Eppure ci ha fatto respirare e sospirare. Non c’era pezzo in cui non giocasse anche lui, fra memorie e paragoni, fra anagrammi e illuminazioni, fra sapori e colori. Dentro c’era tutto perché, come i maiali (il suo animale preferito) non buttava via niente. “Maiali, li amai è un anagramma bugiardo, perché li amo ancora e li amerò sempre. Non perché qualcuno deve pur farlo, ma per stima e riconoscenza. Perché non ho mai capito come faccia un maiale a mangiare le peggiori schifezze, quelle che gli diamo noi, e ad avare carni così buone”. Anche Mura era così: gli si potevano dare le corse più insulse e le partite più banali e lui sapeva trasformarle in paginate ricche di umanità varia.
Ha cambiato cinque squadre, Mura: dalla “Gazzetta dello Sport” alla “Repubblica” passando per “Corriere di informazione”, “Epoca” e “L’Occhio”. Ma ha giocato per chiunque, da “Emergency” a “L’Uomo Vogue”, gli chiedesse uno scatto, una finta, un allungo, una fuga, magari prima da gregario e poi da capitano, no, sempre da libero e da fantasista. Era musica, quella della sua Olivetti 32, lo stesso effetto sonoro di una grandinata su una tettoia prodotta dai calciatori, o dai rugbisti, quando camminano o si scaldano tacchettando sui pavimenti di uno spogliatoio. Ma era anche armonia, andante e allegretto. Ed era anche poesia, canzone, canto, perfino inno. Da poco Mura si era arreso al fruscio, al massimo al ronzio, della tastiera di un computer. Forse era un vezzo, il suo ancoraggio a uno strumento meccanico superato, ma ci stava bene: peché lui era l’ultimo campione di un giornalismo irripetibile e insuperabile.
Calcio. Anche se era infinitamente più del calcio. “Stemma di La Coruna: teschio e tibie, a ricordare che l’estremo ovest della Spagna ha un tratto che si chiama Costa della Morte – era l’attacco della puntata della serie “Il campo dei ricordi” dedicata a Luis Suarez -. E sette cappesante, a ricordare san Giacomo di Compostela. E la torre di Ercole, il faro alto sulla scogliera. In calle Hercules è nato e cresciuto Luis Suarez Miramontes, che di erculeo nulla possedeva quando dalla Galizia arrivò a Barcellona, poco più che ragazzo. Piuttosto gracile, secondo l’allenatore Ferenc Platko, che per lui fece installare un punching-ball negli spogliatoi. Ma il ragazzino aveva già un bel carattere: ‘Sono arrivato qui per fare il calciatore, non il pugile’, disse, e il punching-ball sparì”.
Ciclismo. Anche se sarà eternamente più del ciclismo. “Marco Pantani ha cominciato a morire quella mattina del ’99, a Madonna di Campiglio – ha scritto a 10 anni dalla morte definitiva, quella a Rimini -. Non ha accettato la positività, non ha accettato niente di quello che gli capitava. Tanti altri corridori, invischiati nelle faccende dell’ematocrito, del doping, si sono fermati e sono ripartiti. Lui no. Lui, il re delle salite, si è specializzato nelle discese. Agli inferi, ai paradisi artificiali, a tutto quello che lo nascondeva all’opinione pubblica, ai giornalisti, ai giudici. Si è sempre più isolato, la sua fuga ha avuto distacchi crescenti. E ogni tanto, su questo o quel giornale, su questa o quella televisione, gli appelli: Marco, torna. Appelli giusti, perché il ciclismo senza Pantani era ed è, così appare in questo momento tristissimo, una minestra assolutamente senza sapore. Un palcoscenico senza un prim’attore, con volenterosi caratteristi che però non riescono a dare una scossa al cuore del pubblico. Pantani ci riusciva benissimo, era la sua grande specialità. Pantani sulle salite era l’equivalente dell’acrobata senza rete. Un rituale, con cadenze quasi mistiche. La spoliazione, per esempio: via il berrettino, via la bandana, a un certo punto via anche gli orecchini. Era come un samurai. Ed erano gli altri a saltare per aria. Erano gli altri a non reggere il suo passo, che all’inizio sembrava quello sghembo, di un arrotino, lo zigzagare incerto di un aratro, ma più la salita assumeva pendenza più diventava una condanna, una specie di campana a morto per chi doveva inseguire e non ce la faceva assolutamente a tenere quel ritmo”.
E giornalismo. In fondo, raccontando un po’ di sé anche quando scriveva di altri. “Maestro a chi? A me? Ma vai a scopare il mare. Mi sembra di sentirlo, Mario. Il ruvido, il generoso, il grandissimo Mario Fossati. Gli sia lieve la terra. M’impegno a usare meno aggettivi che posso perché un omaggio, e un coccodrillo è un omaggio, non può contrariare l’omaggiato né da vivo né da morto. Il bravo giornalista è quello che scrive la verità, diceva, e la verità non c’è bisogno di infiocchettarla. Lui s’è regolato così per tutta la vita. E’ stato un testimone del tempo, e di come cambia, non solo nello sport. Ma già nello sport, da quelli più raccontati, ciclismo e pugilato (‘sport di poveri per poveri’) a quello amato più a lungo (‘l’ippica, che rende poveri’) Fossati aveva un suo stile preciso, inconfondibile, molto diverso da quello di Brera, suo grande amico”.
Mura è stato un testimone del tempo (era il titolo di un libro di Enzo Biagi, e poi di uno speciale televisivo su di lui). I suoi Tour de France – quasi tutti in coppia con Carletto Pierelli, amico prima di essergli anche auriga: stessa lingua, il milanese, stesso spirito, randagio, stesso bisogno di indipendenza, chiamiamola pure libertà) – erano racconti in cui il ciclismo era quasi una scusa. Come in un magico frullatore, Mura miscelava Georges Simenon (suo padre, maresciallo – sardo – dei carabinieri, era soprannominato “il Maigret della Brianza”) e Ring Lardner, abbinava la storia della gastronomia alle ballate delle mondine, accoppiava le canzoni di Paolo Conte alle poesie di Alda Merini, riuniva le memorie di Jacques Anquetil e i commenti di Raymond Poulidor, un caleidoscopio di vita barbuta, insonne, alcolica e colesterolica, ma eticamente sana e pulita, onesta e piena. Non si risparmiava, se ne fregava di modalità e convenzioni, non si prestava a giochetti e sotterfugi, aveva talento, ma aveva anche lavorato, letto, studiato, e ancora lavorava, leggeva, studiava, mai trombone, mai fanfarone, mai solone. Si schierava, ma non giudicava. Scriveva, ma non sentenziava. E non se la tirava.
In un paio di discipline Gianni Mura non aveva rivali: mnemoniche (sfide su cognomi di calciatori o corridori, titoli di film o canzoni) e degustazioni (assaggiando l’Armagnac, ne riconosceva l’anno di produzione). Se n’è andato da detentore dei due titoli mondiali.