“Il Ruanda – scriveva Ryszard Kapusciski in “Ebano” – è un Paese piccolo, tanto piccolo che in molte delle carte geografiche contenute sui libri sull’Africa viene indicato solo con un puntino”. Per una decina di giorni il Ruanda mi è apparso in una notizia di Tuttobiciweb e in un’email di un ufficio stampa. Tour du Rwanda, ovviamente.
E’ stato un tuffo al cuore, caldo e colorato. Lo chiamano “il Paese dalle mille colline”, e i corridori lo sanno, a proprie gambe. Lo chiamano anche “la Svizzera d’Africa”, più per la facilità nel fare affari che per il sostegno alla democrazia. Il ciclismo è un modo per emergere come popolo, come meta, come immagine. Ho vissuto quattro edizioni nella carovana, questa l’ho seguita da casa al computer.
La prima lettura è stata, come sempre, la lista dei partenti. Ottanta, divisi in 16 squadre. Nomi, cognomi, nazionalità, numero di tessera. I nomi: il primo posto è andato al colombiano Avila Vanegas, che si chiama Edwin Alcibiades, come se a battezzarlo fosse stato il suo concittadino Gabriel Garcia Marquez per farne un personaggio di “Cent’anni di solitudine”. Sul podio anche l’etiope Hailu, che di nome vanta la fruttuosa dichiarazione (o domanda?) Hailemelekot, e il tedesco Holler, che all’anagrafe può contare sull’evangelico Nikodemus. Sempre per i nomi, da registrare probabili distrazioni all’anagrafe per il colombiano Restrepo con il suo Jhonatan (invece di Jonathan) e per il panamense Jurado Lopez per il suo Christofer (invece di Christopher). Quanto ai cognomi, ho scelto quello arcigno del ruandese Nzafashwanayo, seppure addolcito dal nome Jean-Claude, e quello ululante del suo connazionale Dukuzumuremyi, anche se alleviato dai nomi Fidèle Ali.
A proposito dei ruandesi. Spulciando fra le date di nascita, ho rilevato che sei su 15 sono nati il primo gennaio: Jean-Claude Uvizeye nel 1994, Joseph Areruya nel 1996, Didier Munyaneza nel 1998, Shem Nsengiyumwa nel 1999, Jean-Eric Habimana e Renus Huiriwe nel 2001. Non è che il primo giorno dell’anno in Ruanda abbia particolari virtù ciclistiche, come il 14 novembre in Europa (Vittorio Adorni nel 1937, Bernard Hinault nel 1954 e Vincenzo Nibali nel 1984, solo per dirne solo tre). In Ruanda succede che, soprattutto nei villaggi più lontani, si registrino le nascite ogni tanto, giorno più giorno meno (forse anche settimana più settimana meno, o mese più mese meno).
La lista dei partenti è una fonte certa di notizie per risalire alle nazionalità. Stavolta apparivano corridori di cinque continenti e 26 Paesi, compresi la Malesia (lo scalatore Mohd Shahrul Mat Amin) e la Mongolia (Maral-Erdene Batmunkh, figlio e nipote d’arte). Le squadre più globali erano il Team Novo Nordisk, l’Israel Start-up Nation e il Terengganu Inc. Cycling Team con cinque corridori con cinque diversi passaporti. Fra loro, a occhio, parlano in inglese. Anche se, almeno in corsa, spesso bastano gli occhi.
Soprattutto per corse a tappe così remote, fra nomi e cognomi cerco facce conosciute. Mi rassicurano, mi rincuorano, mi ambientano. A parte gli italiani – Francesco Gavazzi, Davide Gabburo e Simone Ravanelli – qui immaginavo le fisionomie familiari degli eritrei Mekseb Debesay e Metkel Eyob, dell’etiope Kinfe Hailemichael, dell’estone Rein Taaramei, dei ruandesi Areruya e Samuel Mugisha. Volti noti anche fra i direttori sportivi: Leonardo Canciani (metà svizzero e metà italiano, un anno fa alla Tyrol, adesso all’Androni), il francese Jean-Renè Bernaudeau (gregario di Hinault, vincitore di un tappone al Giro d’Italia) e il ruandese Adrien Niyonshuti (il primo a correre in Europa da professionista, portabandiera all’Olimpiade di Londra).
Ecco, insomma, cose così: guardando, leggendo, studiando, ripassando, ricordando, respirando, controllando, aggiornando, verificando, sognando. Intanto accontentandomi di post e email. In attesa di tornare su strade e marciapiedi.
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