EVENEPOEL. «ITALIA, STO ARRIVANDO»

INTERVISTA | 24/02/2020 | 08:09
di Giulia De Maio

«Non è sempre facile essere me, ma i ciclisti... so­no masochisti». La bici è sofferenza, anche se sei un fenomeno. An­che se sei passato professionista a 18 anni e pronti-via hai sorpreso il mondo e te stesso vincendo fior di corse. Anche se hai già fatto l’abitudine ad essere chiamato il nuovo Merckx e sei l’astro nascente di uno sport che hai scoperto da poche stagioni, da quando hai smesso di tirare calci al pallone, cosa che per altro ti riusciva altrettanto bene. Anche se ora, a 20 anni appena compiuti, sei pronto a de­buttare in un grande giro e a giocarti una medaglia olimpica. Il ciclismo e tutto ciò che gli gira attorno è tanto bello quanto faticoso, anche se ti chiami Remco Evenepoel. Essendo tu però un ciclista e un vero talento puoi so­gnare in grande e farti scivolare addosso la pressione crescente.


Un anno fa in Argentina, al debutto nella massima categoria, a una nostra domanda hai risposto che “non è mai troppo presto per vincere” e infatti ci sei riuscito, eccome. Anche se arrivavi direttamente dalla categoria junior, nel 2019 hai saputo far tua una tappa e la classifica finale del Giro del Belgio, dove già sono tutti pazzi per te, una tappa della Adriatica Ionica Race, la Clasica San Sebastian e il Campionato Europeo della cronometro. Quest’anno ti aspetta il Giro d’Italia e punti, senza girarci troppo attorno, a una medaglia olimpica a Tokyo. Da quando sei il re continentale della prova contro le lancette e sei arrivato secondo dietro a Rohan Dennis al mondiale nello York­shi­re ci hanno detto che non pensi ad altro... Non sarà troppo?
«Le vittorie ottenute nel finale della scorsa stagione mi hanno dato fiducia per ambire a traguardi più grandi. San Sebastian e l’Europeo a cronometro, insieme al secondo posto al mondiale, hanno cambiato la mia vita e convinto la squadra a schierarmi in un grande giro così come in altre corse del massimo livello. Sono pronto e ho una voglia matta di mettermi alla prova. So che non potrò aggiudicarmi tutte le gare che ho messo nel mirino, magari non ne centrerò nemmeno una, ma voglio presentarmi al massimo della condizione nei momenti cruciali, che per me saranno Giro e Liegi, Olimpiadi, Mon­diale e Lombardia. Sono molto motivato, ho trascorso un buon inverno, ve­dremo cosa mi porterà questa stagione che esattamente come un anno fa per me inizia al caldo del Sud America».


Cosa hai imparato negli scorsi 365 giorni?
«Di tutto: dal come trattare la bici ad ascoltare chi ha più esperienza di me, ad avere rispetto per tutti i membri del personale, che si svegliano all’alba e vanno a letto tardi per farci trovare tut­to pronto e facilitare il nostro la­vo­ro. Come vi avevo detto all’inizio dell’anno scorso, non sapevo a cosa andavo incontro, avevo solo 18 anni e speravo di andare forte ma non potevo immaginare che nel giro di 6-8 mesi avrei imparato così tanto e sarei stato in grado di alzare le braccia al cielo. Nel finale di gara a San Sebastian ho pianto, mi sembrava pazzesco che non riuscissero a riprendermi. Momenti così sono quelli per cui ci alleniamo e soffriamo ogni giorno sulla bici, un’emozione così ripaga di tutta la fatica dei sa­crifici che affrontiamo svolgendo que­sto mestiere. Detto questo, io guardo già avanti e con la squadra penso a quello che ci aspetta. Non cambierò mo­do di correre, a me piace attaccare, per vincere devi sorprendere gli avversari, è chiaro che a volte dovrò essere anche più parsimonioso o cauto e che i rivali mi terranno più gli occhi addosso rispetto a quando non mi conoscevano».

Chi sono i tuoi riferimenti alla Deceu­ninck Quick Step?
«Tra i compagni Keisse e Gilbert sono stati e sono due punti saldi per me. Entrambi hanno cominciato a vincere da giovani, sanno quanto è dura e ri­schiosa la carriera, mi danno consigli per non farmi commettere errori. Iljo per me è come un secondo padre. Phi­lip­pe da quest’anno sarà un rivale, ma siamo rimasti in contatto. Al mondiale ho semplicemente svolto il mio lavoro per lui: purtroppo anche se avevo recuperato quasi tutto lo svantaggio che avevamo dal gruppo quando si è rialzato da terra, non siamo riusciti a rientrare per colpa della stupida regola imposta dall’UCI, per la quale nella sfida iridata viene applicato il bar­ra­ge anche in caso di cadute e problemi meccanici. Ci mancavano solo 10” ma senza le macchine... Consentitemelo, è proprio una regola del cavolo».

Quanto è cambiata la tua vita?
«Molto, non solo quando sono in sella. Controllare tutto quello che mi circonda è diventato più difficile, ormai do­vunque sanno gli affari miei, a volte è difficile, ma so che scrivono e parlano tanto di me perché sto facendo qualcosa di buono e mi rendo conto che l’attenzione mediatica è parte del gioco. Non c’è nulla di facile nel ciclismo, ma a noi piace faticare. La vita del corridore è impegnativa, per un campione come per un gregario, ma ci piace sentire la fatica durante l’allenamento e le gare. Più che di sacrifici, mi piace parlare di duro lavoro. I ciclisti sono gente strana, un po’ masochista. Non è brutto essere me, tutt’altro, ma a volte non è una passeggiata. Personalmente cer­co di affrontare ogni situazione con il sorriso, in genere aiuta».

I paragoni con il cannibale Eddy Merckx si sprecano.
«Con lui o con altri i paragoni non mi piacciono perché non hanno senso, trattandosi di epoche diverse. Io sono me stesso, voglio esserlo, e può bastare. Tra una gara e un ritiro uso facetime per parlare con la famiglia, guardo le serie tv su Netflix e ascolto tantissima musica, anche italiana ma rigorosamente mo­derna. Il mio riferimento è Tomorrow­land (famoso festival di mu­sica elettronica del Belgio, ndr)».

Hai voglia di scoprire il Giro?
«Sì. L’Italia è un Paese pazzo per il ciclismo, come il mio Belgio. La corsa rosa è piena di energia e di spettacolo. Forse è l’unico dei grandi giri in cui non si riesce a prevedere che cosa succederà. Questo mi piace. Può cambiare tutto quasi ogni giorno. Con la squadra ne abbiamo cominciato a parlare ad agosto quando ho avuto la certezza di partecipare ai Giochi di Tokyo, dove la crono sarà un obiettivo. Il Giro sarà una parte importante del percorso verso l’Olimpiade, si concilia benissimo, ma ovviamente ha un grande valore in se stesso. Potrò scoprire un po’ di più i miei limiti nel corso delle tre settimane. Finora al massimo ho partecipato a corse di nove giorni».

La corsa rosa inizia con una cronometro, hai fatto un pensierino alla maglia rosa?
«Sì, ma realisticamente ho una chance su 176, tanti sono i partecipanti che il 9 maggio saranno al via da Budapest. Io a crono vado bene, anche se quella misura meno di 10 chilometri e io mi esprimo meglio in quelle più lunghe. In una prova così può succedere tutto. Se hai una super giornata puoi sbaragliare la concorrenza. Altrimenti, puoi arrivare ultimo. Mi preparerò per dare tutto e poi vedremo. L’obiet­tivo è imparare e diventare migliore. Il simbolo di leader in una grande corsa a tappe cambia la vita a chiunque, figurarsi alla mia età. Non so se qualcuno ha mai vestito la maglia rosa a 20 anni...».

Solo Fausto Coppi, ma aveva 4 mesi in più di quelli che avrai tu a maggio.
«Ecco, stiamo parlando di un mito... Non andrò a visionare le tappe in Un­gheria, proverò giusto la cronometro lunga dopo la Tirreno-Adriatico. Vo­glio vivere il Giro senza stress. Voglio fare esperienza, senza pensare al risultato. Terrò duro due settimane, tre, magari solo dieci giorni se sarò già vuoto e non vorrò finirmi. Cercherò di dare in ogni occasione il meglio di me. Le lunghe salite sono un po’ come le crono: tanto tempo ad alta potenza con accelerazioni. I parametri dicono che posso essere adatto ai grandi giri, ma va verificato. Se mi staccheranno, lavorerò di più. Ma anche se non mi staccheranno, dovrò farlo».

Che rapporto hai con l’Italia?
«Da prof la prima gara che ho disputato nel vostro paese è stata la Adriatica Ionica Race e ho vinto una tappa. I miei successi più importanti li ho preparati a Livigno. Da juniores, la prima corsa da voi è stata il Giro di Lu­ni­giana... e ho vinto. Il pubblico mi ha trasmesso amore, energia, rispetto. Sì, correre in Italia è un piacere puro. Adoro il vostro cibo, in particolare il gelato. Amo la stracciatella. In Belgio abbiamo un gusto che purtroppo da voi non c’è: speculoos (un biscotto, ndr). E poi, essendo appassionato di calcio, devo dire che la mia squadra italiana di riferimento è il Milan. Il vostro campionato è molto interessante e ci sono belgi come Mertens, e ora Lukaku, che stanno facendo benissimo. Seguo so­prattutto le grandi manifestazioni come la Champions. Tifo per l’Ander­lecht e simpatizzo per l’Arsenal, anche se non stanno vivendo un grande periodo».

Oltre a te ci sono altri giovani che stanno emergendo con prepotenza. Da Bernal a Pogacar, passando per Van der Poel e Van Aert.
«Non credo stia succedendo nulla di particolare in gruppo, penso sia semplicemente merito di madre natura se in questo periodo stanno sbocciando di­versi talenti. Non penso al fatto di es­sere il più giovane, sono più concentrato sul fare bene il mio lavoro. Penso a correre nel modo che può essere mi­gliore per il successo. Attaccando pure da lontano, perché no? È la mia filosofia. Molti magari non si muovono pensando a risparmiare energie per il finale. Qualche anno fa il ciclismo è stato un continuo attendere, attendere, at­tendere. Ora, invece sta cambiando. Basti ripensare a Froome al Giro 2018. Ha attaccato a 80 km dalla fine di quella tappa con il Colle delle Finestre. Ha vinto il Giro, così. Se te la senti, non bisogna esitare. Prendi e vai. Non bisogna avere paura di tentare, anche se quello che fai può sembrare una pazzia, per raggiungere qualcosa di grande. E questo modo di muoversi in corsa piace al pubblico. Più attacchi ci sono, più il ciclismo è entusiasmante».

Se pensi ai cinque cerchi, cosa provi?
«Mi viene la pelle d’oca. Partecipare all’Olimpiade alla mia età è qualcosa di folle. Già solo essermi qualificato è un onore: difendere i colori del mio Paese nella crono e nella prova in linea sarà fantastico. Farò del mio meglio. È il sogno di ogni sportivo, lo desideravo fin dai tempi in cui giocavo a calcio. Non andrò in Giappone per vedere il percorso olimpico, durante la stagione un viaggio così lungo non ha senso, mi stancherei per nulla. Volerò a Tokyo due settimane prima della crono per adattarmi al clima e provare il percorso. Con la Nazionale dormiremo a 20 chilometri dal tracciato della prova contro il tempo quindi ogni giorno pri­ma del grande appuntamento sarò sul circuito. Cosa mi aspetto? È difficile fare previsioni. L’Euro­peo era piatto, realisticamente si pensava che solo i ragazzi sugli 80 chili potessero vincere invece io ho spinto 400 watt medi, che per quanto peso io (61 kg) è tanto. Al mondiale ho disputato la mia prima crono sopra l’ora, 54 km sono davvero tanti e anche se Dennis è stato incredibile, il gap tra me e quelli che mi sono messo dietro non era niente male».

da tuttoBICI di febbraio

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