Quando un anno fa gli si chiedeva cosa si aspettasse dalla prima stagione coi professionisti, rispondeva con umiltà che gli sarebbe “bastato prendere confidenza con questo mondo”. Edoardo Affini, non solo ha già preso confidenza con il mondo dei grandi, ma ha anche già lasciato il segno. Mantovano, classe 1996, è cresciuto in una famiglia di ciclisti e la bicicletta non poteva che rappresentare anche la sua strada. Fin da giovanissimo ha dimostrato di avere una potenza non comune, così ha scelto di approfondire il suo rapporto con la bicicletta da cronometro, con la quale poteva sfoderare tutti i cavalli del suo motore. Tra gli Under 23 è stato campione italiano ed europeo contro il tempo e tra i professionisti ha già dimostrato di potersi inserire nella lotta coi grandi specialisti. Una vittoria a cronometro al Tour of Britain, ma anche una linea, la prima in assoluto della sua carriera, al Giro di Norvegia, vincendo una volata ristretta.
Mica male come inizio…
«Grande stagione, sicuramente sopra le aspettative. Sono arrivate addirittura due vittorie, la prima paradossalmente in una tappa in linea al Giro di Norvegia, più la cronosquadre alla Hammer Limburg e ho fatto tanta esperienza. È stata lunga, perché ho dovuto faticare fino alla fine con il Tour of Guangxi, però ho avuto l’opportunità di partecipare a grandi corse, dalla Milano-Sanremo al Giro delle Fiandre e alla Parigi-Roubaix. Direi che non posso lamentarmi di questo esordio tra i professionisti».
E c’è anche una medaglia di bronzo a crono ai Campionati Europei di Alkmaar.
«È un risultato che mi ha dato veramente tanto morale e consapevolezza dei miei mezzi. Soprattutto in vista dei prossimi anni, ho avuto la conferma che la cronometro può essere il mio terreno e adesso posso continuare a lavorare su questa disciplina con ancora maggior convinzione».
La cosa che sorprende, però, è che fin dal primo anno coi professionisti sei stato competitivo ai massimi livelli nelle prove contro il tempo.
«Sì, è vero. In tutte le cronometro che ho fatto sono riuscito ad inserirmi nella lotta per le prime posizioni. L’unica che è andata male è stata quella al Mondiale dello Yorkshire, che ho chiuso sedicesimo a circa tre minuti e mezzo da Dennis. Quel giorno non sono riuscito a trovare il colpo di pedale fin dalla partenza, e sicuramente non sono riuscito ad esprimermi ai miei migliori livelli. È stata una delusione ma la prendo come un’esperienza importante. In fin dei conti era la prima volta che facevo una crono così lunga, ben 54 chilometri, e adesso ho capito meglio come gestire uno sforzo così prolungato».
In quale distanza ti senti più a tuo agio?
«Da dilettante ho sempre corso cronometro di 20/30 o massimo 35 chilometri. Quindi il corpo, e soprattutto la mente, è abituato a quelle distanze ed è normale che riesca ad esprimermi al meglio in quelle condizioni. Adesso lavorerò per migliorare anche in percorsi più lunghi, non posso inventarmi niente, l’unica cosa che posso fare è continuare a darci dentro».
Il miglior specialista al momento?
«Senza dubbio Rohan Dennis. Ha avuto una stagione un po’ particolare, ma al momento è un gradino, forse anche un gradino e mezzo, sopra tutti. Poi c’è un gruppo di corridori che si alterna nelle prestazioni, una volta va meglio uno e una volta un altro, quindi è difficile fare gerarchie, anche perché dipende dal momento della stagione e dal tracciato».
Cassani dice che con te e Ganna l’Italia è a posto nelle cronometro per i prossimi dieci anni. Che ne dici?
«Tocco ferro (ride, ndr). Sicuramente come movimento italiano però stiamo facendo passi avanti. Per tanti anni ci hanno rimproverato di non avere cronomen all’altezza. C’era Adriano Malori, che senza quell’incidente che gli ha tagliato la carriera avrebbe ottenuto altri grandi risultati contro il tempo. Adesso però qualche bel corridore sta venendo fuori; oltre a Ganna e a me, abbiamo visto che gli juniores con Andrea Piccolo e Antonio Tiberi hanno grandi qualità. Insomma, il progetto è buono, se ci sarà la pazienza di non chiedere cose impossibili fin da subito, son sicuro che arriveranno altri risultati importanti».
Con Filippo Ganna c’è una sana rivalità?
«Assolutamente sì. Lui è uno stimolo per me e penso di esserlo anch’io per lui. Abbiamo la stessa età, è da quando siamo allievi che ce le diamo di santa ragione a cronometro, ma al di fuori delle corse siamo grandi amici».
Si dice che per andare forte a crono bisogna tralasciare il resto. È vero?
«Chiaramente bisogna specializzarsi. Però è normale che nel momento in cui decidi di concentrarti su una disciplina, ti alleni soprattutto su quella. I velocisti si concentrano sulle volate e gli scalatori sulle salite, penso sia una cosa logica. Ma non bisogna dimenticare che se vai forte a cronometro, di solito non vai piano nel resto…»
E quanto conta la predisposizione?
«Un po’ di genetica ci vuole. Madre natura fa la sua parte, però ci vuole tanto lavoro, soprattutto mentale, perché quello della crono è uno sforzo diverso. Bisogna saper fare i conti con la propria testa, rimanere a lungo da soli a prendere vento in faccia».
In una settimana tipo, quante volte prendi la bici da crono?
«Con questo calendario così folto quasi mai ho una settimana standard, però diciamo che mediamente la prendo due volte a settimana. Questo non vuol dire che appena la prendo vado a tutta, ogni tanto la si può usare anche per fare scarico, per testare la posizione e prendere confidenza con il mezzo».
Ti sei messo alle spalle il primo anno australiano con la Mitchelton Scott. Come ti stai trovando?
«Benissimo. È un ambiente ottimo, professionale ma allo stesso tempo familiare. Ci tengono molto a fare gruppo, vogliono che staff e corridori vadano d’accordo. Non mettono troppa pressione, quindi posso dire che il mio primo anno è andato alla grande».
Hai legato con qualcuno in particolare?
«Ho legato molto con Matteo Trentin. Sono stato suo compagno di stanza per tutto il periodo delle classiche. Mi dispiace che cambi squadra, però in fin dei conti è il nostro lavoro, siamo professionisti e ognuno pondera le sue scelte in base alle sue esigenze».
Da Under 23 hai optato per un percorso diverso rispetto a tanti altri giovani italiani. Quanto ti è servita l’esperienza olandese con la SEG Racing Academy?
«Penso che mi abbia dato qualcosa in più rispetto ad alcuni miei coetanei che hanno corso solo in Italia. Non solo dal punto di vista tecnico, ma anche umano perché, per esempio, ho imparato l’inglese e poi, una volta passato prof, non ho avuto problemi di ambientamento con la Mitchelton. In più comunque ho fatto corse importanti, con avversari di alto livello provenienti da tutto il mondo, e questo ha sicuramente attutito il balzo del passaggio di categoria. La SEG è una squadra con budget importanti per la categoria e già mentalizzata al professionismo».
A questo punto cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova stagione?
«Voglio rimanere coi piedi per terra. Non mi pongo obiettivi specifici. Spero di continuare a crescere come ho fatto quest’anno e sfruttare le occasioni che si presenteranno».
Una corsa dei sogni ce l’hai?
«Certo, la Parigi-Roubaix. Ma la vedo ancora lontana».
Beh, le caratteristiche fisiche sono dalla tua parte…
«Sì, ma non basta solo quello. C’è da lavorare parecchio».
da tuttoBICI di gennaio
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