Quelli che dicono “step” invece di passo o grado o livello, quelli che preferiscono “gap” a divario o distanza o differenza, quelli che scelgono “top” al posto di meglio o massimo o vertice, quelli che adottano “mission” anziché missione e “testimonial” anziché testimone. E si tratta di italiani, non di britannici. In particolare, nel ciclismo, quelli che pensano che “Viviani brothers” sia più efficace di fratelli Viviani, quelli che hanno lanciato “fight for pink” rinunciando al nostrano “lotta per la rosa”, intesa come maglia, quelli che a tutti i costi impongono “team” ignorando squadra, perfino il nostro Tuttobiciweb che ricorre a “news” per sostituire notizie o novità (però si apprezza lo sforzo nel resistere alla tentazione di eliminare “ultim’ora” a favore di “last minute”). E si tratta sempre di italiani, non di statunitensi.
Il villaggio è globale, anche quello alla partenza delle tappe. Se nel Novecento la lingua ufficiale del ciclismo era il francese, adesso è l’inglese. Ma ci si dimentica che italiano era una buona parte del calendario, che italiani erano molti corridori, che molte squadre erano italiane, e soprattutto che certe parole italiane erano, anzi, sono nel vocabolario di tutto il gruppo. A cominciare proprio da “gruppo” e “gruppetto”. E ancora oggi, se certi francesismi come “grimpeur” o “suiveur” possono suonare datati, per dirla in francese “démodé” e in inglese “vintage”, alcuni italianismi come “gregario” o “ammiraglia” sembrano non solo irrinunciabili, ma anche significativamente storici, ricchi, preziosi, addirittura ammirati e nvidiati.
Da sempre le invasioni economiche hanno aperto alle incursioni linguistiche. “Le truppe americane – scrive Giuseppe Antonelli in “Il museo della lingua italiana” (Mondadori) – avevano portato il chewing gum e il nylon; i bambini italiani si erano messi a fare gli Sciuscià (come recita il titolo del film di Vittorio De Sica, 1946), cioè gli shoe-shines: i lustrascarpe. Dai film western arrivavano parole come cowboy o saloon, nella vita dei giovani cominciavano a entrare il juke-box, il flipper, i blue-jeans, il twist. Anche per descrivere il grande balzo in avanti dell’economia italiana, si usa una parola inglese: il boom”.
Modestamente non auspico il ritorno alle traduzioni italiane dei vocaboli stranieri: meglio computer che computiere o elaboratore elettronico. Ho accettato tranquillamente “mountain bike” e “gravel”, così come ho sempre usato “ciclocrossista” e non “ciclopratista”, non ho mai contestato “miss” né “speaker”, non ho mai fatto una piega davanti a “keirin” e “scratch”, anche se confesso di privilegiare americana a “madison” (che andrebbe scritto con la maiuscola, Madison, poiché si riferisce alle corse disputate nel Madison Square Garden di New York). Ma “sneakers” invece di scarpe da ginnastica mi sembra una forzatura, e continuo a preferire concorrente a “competitor” e cronosquadre a “team time trial”.
E se molti italiani pensano che l’italiano sia diventato “cheap” o “outdated”, inglesi e americani – per dire due popoli che parlano la lingua oggi dominante – almeno nel ciclismo amano, se non gli italiani, certamente l’italiano. Con “gran premio della montagna” si riempiono la bocca, con “traguardo volante” sorridono con complicità, esiste addirittura un’agenzia cicloturistica californiana di Sausalito che si è battezzata “inGamba”, e ci sono espressioni come “fuga” e “volata” che appartengono a tutti. Ma proprio a tutti. Un esperanto (che è l’italiano) a due ruote.
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