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Un rantolo. Come un colpo di tosse, di marmitta, di canna fumaria, un colpo metà fuori e metà dentro, strozzato. Quel corpo, spinto e tirato come una Formula 1, ora ridotto a una carcassa balbuziente, balbettante, da rottamare. Sono le otto e quarantacinque del 2 gennaio 1960. Sessant’anni fa. In quell’istante nella stanza numero quattro, reparto medicina, sezione dozzinanti (i degenti ospedalieri a pagamento) dell’ospedale civico di Tortona, ci sono il fratello Livio, il cappellano monsignore Lorenzo Ferrarazzo, il primario ematologo Giovanni Astaldi, i medici Carlo Poggi e Giustino Meardi, e suora Aurelia. Fuori dalla stanza c’è la storia che aspetta. Giulia è stata allontanata cinque minuti prima. Sarà Ettore Milano, angelo custode impotente perché umano, a chiudergli gli occhi. E sarà Ubaldo Pugnaloni, gregario sentimentale, silenzioso e fedele, a tracciarne il ritratto più vero: “Aveva la pelle gialla come la buccia di un limone e i capelli diritti come una spazzola”.
La morte di Fausto Coppi. Uno spartiacque nella storia del ciclismo, e anche nella storia del Novecento. Il prima e il dopo. E un dopo che non sarebbe mai più stato come il prima. Da subito. Quello stesso anno, il 1960, all’alba del boom economico, le vendite delle biciclette in Italia crollano del 60 per cento. Da Coppi-è-Coppi a Coppi-era-Coppi. Da Coppi indicativo a Coppi imperfetto. Da Coppi il Campionissimo a Coppi la leggenda, a Coppi il mito, a Coppi la divinità. La notizia dell’ultima, definitiva fuga, è un passaparola diffuso alla radio e alla televisione, che echeggia fra cascine e bar, risuona in chiese e tinelli, ribolle in redazioni e tipografie. Edizioni straordinarie. Soltanto poche ore prima “La Gazzetta dello Sport” ha catturato Rino Negri mentre andava a teatro con la moglie, e lo ha immediatamente inviato a Tortona. “Tuttosport” si è affidata al garzone di redazione, Gian Paolo Ormezzano, che si sottopone – parole sue – a una notte di “fachirismo giornalistico”. Alle 21 di quel 2 gennaio la salma di Coppi viene trasportata nella sede del Velo Club Tortonese 1887, intitolato a Serse Coppi. La processione per l’ultimo omaggio continua oltre la mezzanotte. Nelle parole di Vittorio Pozzo, commissario tecnico della Nazionale italiana di calcio campione del mondo nel 1934 e nel 1938, “per la gran massa degli sportivi la notizia della sua morte giunse prima di quella della sua malattia”.
La disperazione di Bruna e Giulia, la prima e la seconda moglie. Lo smarrimento di Angiolina, la mamma. Il pudore dei fratelli e delle sorelle. La confusione di Marina e l’innocenza di Faustino. Le colpe, e i sensi di colpa, dei medici. I silenzi di Ettore Milano e Sandrino Carrea. I chilometri fatti da tutti gli altri gregari per l’ultimo saluto, per il lungo addio, per l’eterno riposo, e i loro sguardi, persi, spenti. E la nuova solitudine di Gino Bartali. A rivelargli la morte di Fausto è Fred Bongusto, il cantante, dopo una serata alla Bussola. Bartali si precipita a Tortona, trascorre ore frenetiche, piene di niente, e confida: “Quando muoio io, desidero essere seguito soltanto da gente che prega”. Coppi lo ha staccato un’altra volta. Stavolta, per sempre.
©Archivio Storico Fotografico "Fotowall" di Walter Breveglieri, edizioni Minerva.
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